Conclusioni
Con la fine del Pci termina il viaggio all’interno del “paese nel paese”.
E’ opportuno a questo punto porsi due ultime domande che scaturiscono a conclusione del lavoro svolto: “Perché è finito il Pci ? cosa è rimasto del Pci ?”.
Innanzitutto perché è finito il Pci ? Molti risponderebbero perché una volta crollati gli Stati socialisti la presenza in Italia di un Partito comunista non era più opportuna. Questa analisi è, secondo il mio punto di vista, troppo riduttiva. Nonostante i profondi sconvolgimenti portati dal crollo del Muro di Berlino, va ricordato che il Pci non è stato mai troppo tempestivo nel seguire le trasformazioni da poter riuscire a liquidare se stesso e la sua storia, durata più di settanta anni, in meno di un anno e mezzo, tanto quanto fu il tempo intercorso tra la Bolognina e la nascita del Pds. Il Pci, dal dopoguerra in poi, infatti ha sempre effettuato tardivamente le “svolte” richieste dalle improvvise trasformazioni della società.
Era questa l’altra faccia del Partito nuovo e la “giraffa” togliattiana spesso diventava molto più simile ad un “elefante”. Nonostante tutto, il meccanismo del centralismo democratico, che era utilizzato per la direzione politica del Partito, era veramente tale. Il Pci era un partito in cui indubbiamente vi era il “centralismo”, in quanto tutte le principali decisioni venivano prese dal “vertice”, dopo una mediazione tra le sue “diverse sensibilità”, ma contemporaneamente era anche un partito “democratico”, poiché la maggior parte delle stesse erano discusse coinvolgendo la base. Ovviamente era importantissimo il ruolo dei “quadri intermedi”, i quali giocarono un ruolo fondamentale anche nello scioglimento del Pci, che garantivano che la linea del “vertice” fosse approvata senza troppi problemi dalla base.
Altresì importante era il divieto di creare “frazioni”, che salvaguardava effettivamente, al termine anche delle discussioni più laceranti, l’unità del Partito. Così si muoveva, all’unisono, un partito di oltre 1.500.000 iscritti. Ovviamente con questo metodo i tempi delle decisioni erano molto lunghi. Il Pci, proprio per questo motivo, giunse tardi ad alcuni importantissimi “appuntamenti con la storia”.
Il ritardo più grave avvenne nel 1956, quando il Pci perse l’occasione, dopo l’invasione dell’Ungheria, di accelerare in quel momento il distacco dall’Urss, restando ancorato alle posizioni dello Stato sovietico e perdendo in questo modo l’ultima possibilità di unire la sinistra italiana e di creare così un’alternativa alla Dc. Di Vittorio, e possiamo immaginare quanto gli costò dirlo pubblicamente, lo comprese meglio della Direzione e della base del Partito. Il Pci invece con la sua scelta rimase isolato a sinistra e fece si che il percorso dalla creazione della “via italiana al Socialismo” all’effettivo e totale distacco dall’Urss, proclamato da Berlinguer nel 1981, con la celebre frase sulla “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre”, durasse altri venticinque anni.
E’ impossibile inoltre ritenere che la liquidazione del Pci possa essere stata semplicemente una diretta conseguenza della fine dei Paesi socialisti, in quanto una svolta internazionale di quel tipo non poteva essere proposta, nonostante la comprensibile ondata emotiva, dopo i soli due giorni che erano passati dal crollo del Muro di Berlino alla svolta della Bolognina. E poi il legame con il Socialismo reale era stato consegnato alla storia e non era più una caratteristica “viva” del Pci, che anche se con tantissimi sforzi, era riuscito già da qualche anno a raggiungere una sospirata autonomia politica dall’Unione Sovietica.
Per capire le reali motivazioni che portarono alla fine del Pci va svolta un’analisi che può essere definita “gramsciana”. E’ necessario infatti soffermarsi sul blocco sociale del Partito che si era profondamente modificato negli anni, e che non poteva più, ovviamente, riconoscersi nelle due vecchie principali categorie di cui parlava lo stesso Gramsci, ovvero gli operai ed i contadini. Negli anni seguenti, anche e soprattutto in seguito al boom economico, le classi operaie e contadine avevano conseguito una costante crescita economica e sociale che aveva generato una vera e propria trasformazione del corpo sociale del Partito. La progressiva attenzione verso il mondo delle cooperative, è la testimonianza diretta di questo ragionamento.
Si svilupparono infatti, in seno al Partito, delle sensibilità diverse di cui il mondo delle cooperative era l’espressione più visibile, che con il passare degli anni trasformarono gli strumenti economici del Pci da “cinghia di trasmissione” in “strumenti di pressione sulla linea del Partito”. Questo fenomeno fu anche geografico, in quanto nelle “regioni rosse” era, ed è ancora, sicuramente maggiore l’incidenza di questo antico e nuovo mondo economico. La sola Emilia Romagna comprendeva un quarto di tutti gli iscritti nazionali del Partito, e sommando a questi gli iscritti delle altre due “regioni rosse”, la Toscana e l’Umbria, il totale superava il 40%. E’ facile immaginare quale fosse la forza politica di queste regioni all’interno del Partito. L’adesione in massa di quelle federazioni alla linea di Occhetto costituisce il tassello mancante di questa analisi.
Il Pci non era più il “Partito degli operai e dei contadini”, ma era diventato anche il “Partito delle piccole e medie imprese”. Il nome “comunista” e l’impedimento che questo portava, a causa del “fattore K”, al raggiungimento del governo, si scontravano con il pieno inserimento del nuovo blocco sociale del Partito nel sistema capitalistico. Alla prima occasione, cavalcando la crisi del Partito e l’onda emotiva del crollo del Muro di Berlino, si procedette al superamento del Pci, anche se questo significò un profondo disorientamento dei militanti e perfino una scissione. Il rinnovato quadro internazionale fu quindi solo una concausa nello scioglimento del Pci, che, secondo il mio parere, fu subordinata alla motivazione del cambiamento del blocco sociale di riferimento del Partito.
La seconda domanda che ci poniamo è “cosa è rimasto del Pci ?”. Quello che costituisce la migliore eredità del Pci e dei suoi settanta anni di vita e di lotta riguarda senz’altro la Costituzione e la democrazia italiana, i diritti dei lavoratori e lo stato sociale.
E’ inutile ritornare, poiché fuori discussione, sul decisivo ruolo svolto dal Pci e dagli altri partiti antifascisti nella nascita e nella crescita della democrazia italiana, venuta fuori dopo la dittatura fascista e le lotte della Resistenza. Abbiamo già parlato anche del proficuo lavoro svolto nell’Assemblea costituente dai partiti, che, nonostante le dure divisioni per la politica interna, riuscirono a raggiungere un “compromesso alto” che diede i natali alla Costituzione italiana. Ma va ricordato che fino alla scomparsa del Pci e dei partiti del “pentapartito”, la politica aveva verso la Costituzione un atteggiamento di profondo rispetto. I partiti sentivano i principi costituzionali come un limite invalicabile per le proprie proposte politiche ed addirittura il Pci lottò fino alla sua scomparsa per “l’attuazione sostanziale” della Costituzione, ovvero il passaggio dall’enunciazione dei principi presenti nella Carta costituzionale alla attuazione degli stessi nelle scelte del Legislatore e del Potere esecutivo.
Negli ultimi anni invece il vento è cambiato, la Costituzione non è più un punto fermo e quasi tutti i partiti contemporanei sono d’accordo sul fatto che vadano apportate serie modifiche alla stessa. Il dibattito è aperto ancora oggi, e senza entrare nel merito di questo, va detto che quel proficuo clima di concordia dell’Assemblea costituente è ormai molto lontano. Anche perché negli ultimi tempi sta prevalendo, nei fatti, anche il principio di fare le “riforme costituzionali a colpi di maggioranza”. Il “compromesso alto” tra le culture comuniste, socialiste e cattoliche è ritenuto superato quindi da proposte di riforma “unilaterali” che nel migliore dei casi possono essere definite di ispirazione “liberale”.
Le pressioni dei partiti di sinistra, soprattutto del Pci, e dei sindacati, sulla Dc e sul Governo, inserite in un contesto che aveva l’obiettivo dell’attuazione sostanziale della Costituzione, fecero si che si formasse una sempre più spessa rete di garanzie sociali e di diritti. I lavoratori e le figure più deboli della società videro negli anni della cosiddetta “prima Repubblica” un considerevole e costante allargamento dei propri diritti. Negli anni successivi anche su questi temi la situazione è mutata. Già dagli anni ’80 lo “Stato sociale” fu posto sotto accusa ed il Pci degli ultimi anni, pur versando in una situazione di crisi, provò a rispondere in qualche modo a questi attacchi.
Dagli anni ’90, dopo la fine del Pci, i governi di ogni colore politico hanno provato a mettere un po’ d’ordine nelle dissestate finanze italiane ed ha acquisito sempre più peso la parola d’ordine “risanamento”. Soltanto che, insieme agli sprechi, i necessari tagli hanno riguardato molto spesso anche i diritti. Anche i sindacati, che avrebbero dovuto costituire, insieme ai partiti di sinistra, l’argine contro gli eccessi dell’ideologia neoliberista, che in questi anni ha avuto l’egemonia sulle altre culture ed è stata la principale interprete di queste politiche, hanno “difeso i diritti” soltanto a fasi alterne e troppo spesso condizionati dal colore politico del Governo che procedeva ad effettuare i tagli.
L’eredità del Pci è ritenuta quindi superata dalla maggior parte della politica contemporanea. Ma vale la pena di ricordare che la Costituzione, la democrazia, i diritti, lo stato sociale, costituiscono l’eredita migliore, anche se non esclusiva, del Pci e non certo i suoi errori. Su tutto questo l’atteggiamento della politica contemporanea mostra chiaramente i suoi limiti e una sua subordinazione al pensiero unico economico che sarebbe stata impensabile, ad esempio, per un partito come la Dc.
Un ultimo breve accenno lo meritano i partiti che sono discesi dal Pci, ovvero i Democratici di sinistra, Rifondazione comunista ed il Partito dei comunisti italiani.
I Ds che sono l’espressione diretta del Pci sono stati uno dei partiti che, oltre al proprio nome, passato da Pds a Ds, è cambiato di più in questi anni. I Ds oggi sono inseriti a pieno titolo tra i partiti del Socialismo europeo e, pur conservando un rapporto con la Cgil, possono essere considerati un classico partito interclassista di governo.
Il Prc, nato dalla minoranza del Pci che si è rifiutata di entrare nel Pds, tra varie vicissitudini, pur rimanendo comunista, ha abbandonato la tradizionale storia dei partiti comunisti ed è, con la decisiva spinta del suo leader Bertinotti, alla ricerca di nuove vie.
Il Pdci, nato da una scissione dal Prc, è il partito che più si rifà al Pci, ma è anche il più piccolo partito della sinistra avendo una forza elettorale vicina al 2%.
La sinistra del 2000 è riuscita a sfatare il “fattore K”, riuscendo ad andare al governo dal 1996
al 2001 e si appresta, probabilmente, a ritornarci. Essa ha raccolto nel complesso, da un punto di vista elettorale, un consenso leggermente inferiore al Pci oscillando da un minimo del 22%, nel 1992 e nel 2001, ad un massimo del 30%, raggiunto nel 1996. Va considerato che oggi questi tre partiti rappresentano la quasi totalità della sinistra, a differenza degli anni della “prima Repubblica”, quando ai voti del Pci, nel conteggio dei consensi della sinistra, potevano essere aggiunti quelli considerevoli del Psi. E’ inoltre diminuita notevolmente la partecipazione della base. Ad oggi gli iscritti ai tre partiti sono complessivamente circa 700.000, contro i 2.000.000 - 2.250.000 dal 1946 al 1956 e il 1.500.000 - 1.800.000 dal 1957 in poi del Pci.
Questi partiti, infine, per sempre, i Ds, o “fino a data da destinarsi”, il Prc ed il Pdci, hanno abbandonato l’idea del cambiamento della società. Su questa scelta ha indubbiamente influito la sconfitta storica del “Socialismo reale”, ritenuto a ragione da tutti un esempio da non imitare in quanto privo di libertà e di sostanziale uguaglianza, che ha reso inattuale un’alternativa al Capitalismo. Chissà quando nascerà, o forse è già nata, un’altra generazione di giovani che, non potendo essere accusata di “voler fare come in Unione sovietica”, potrà spingersi a sognare una nuova idea di società e ritentare, in un modo del tutto nuovo, “l’assalto al cielo”. Ma questa è un’altra storia.