II - Da Bordiga a Gramsci

Nel maggio del 1921 si tennero le elezioni politiche e i comunisti si presentarono con una lista autonoma[1] che raccolse solo 300.000 voti e 15 Deputati; il Psi, invece, conservò quasi intatta la propria forza elettorale riportando 1.600.000 voti (122 seggi). Questo appuntamento fu contrassegnato da azioni di disturbo da parte dei fascisti che cercarono di non far votare molti socialisti e comunisti. Contro il dilagare dello squadrismo fascista nacquero gli “Arditi del popolo”, movimento che si dichiarava “apolitico”, ma di cui facevano parte molti socialisti e alcuni comunisti. La linea molto settaria del Pci di Bordiga, che vietò ai suoi iscritti di partecipare al movimento, impedì il crescere di quell’esperienza, che fallì miseramente. Nel 1922 il II Congresso del Pci, che si tenne a Roma, confermò la linea di Bordiga, fondata sulla esclusione di qualsiasi tipo di accordo con i socialisti, e questo provocò, anche a causa della scissione dell’ala riformista del Psi, i primi attriti con l’Internazionale, la quale pose con forza il tema della riunificazione con il Psi di Serrati.

Intanto il Fascismo con la “marcia su Roma” dell’ottobre 1922 si insediò, con il silenzio assenso della Corona, al potere e Antonio Gramsci si rese conto che la politica di Bordiga, che aveva condotto all’isolamento del Partito andava superata[2]. Il Pci, infatti, si trovava in quel momento in rottura sia con l’Internazionale comunista, che avrebbe dovuto rappresentare il punto di riferimento per qualsiasi partito comunista, sia con le altre forze, di sinistra, italiane. Fu in questo contesto che Gramsci cominciò a lavorare per un cambio di maggioranza all’interno del Partito e, con l’indispensabile aiuto di altri importanti dirigenti del Partito, quali Togliatti, Terracini, Scoccimarro e, in un secondo momento, Ruggero Grieco, oltre che con l’appoggio dell’Internazionale, fondò il gruppo, cosiddetto “di centro”, che si contrapponeva alla “destra” di Tasca e soprattutto alla “sinistra” di Bordiga.

Bordiga ebbe ancora la maggioranza con 41 delegati su 67[3] alla Conferenza organizzativa, tenuta clandestinamente in un albergo di Como nell’aprile del 1924, ma il peso politico del centro era in crescita se si considera che il Pci, alle elezioni politiche del 1924, si presentò con un’unica lista con quelli che nel Psi si rivedevano nelle posizioni della Terza Internazionale. Alla fine del 1923 vi era stato, infatti, l’avvicinamento, che culminò nell’agosto del 1924 nell’entrata nel Pci, di numerosi e validi dirigenti del Psi, denominati appunto “terzini” per la loro vicinanza alla linea politica della III Internazionale, e che erano rimasti nel loro partito ai tempi della scissione di Livorno. Tra questi i più importanti furono il vecchio leader del Psi Serrati e il sindacalista di Cerignola Giuseppe Di Vittorio.

Alle elezioni del 1924, che furono tenute con la legge Acerbo ribattezzata “legge truffa” che assicurava i due terzi dei deputati ai fascisti, il Partito comunista, nonostante i ristretti margini d’agibilità politica, ottenne un discreto risultato conseguendo 268.000 voti (2,7%) e 19 Deputati eletti. Se si considera che il Psi perse oltre la metà dei consensi crollando con poco più di mezzo milione di voti al 8.2%, si può affermare che quelle elezioni registrarono una sostanziale tenuta di una forza, il Pci, che sebbene settaria, era caratterizzata da una importante motivazione dei propri militanti, che nonostante le prime persecuzioni della dittatura fascista, che nel 1922 aveva fatto arrestare i tre quarti dei segretari di Federazione oltre che allo stesso Bordiga, continuavano a svolgere attività politica e a credere nel Partito.

Ma i crimini del Fascismo erano solo all’inizio e l’escalation di cieca violenza culminò con l’assassinio di Matteotti, il deputato socialista che aveva denunciato in Parlamento i brogli delle ultime elezioni. Il conseguente sdegno generale mise un po’ in crisi il nuovo regime ed il Pci ebbe maggiori e nuovi margini di manovra che si concretizzarono con un consistente miglioramento nell’organizzazione del Partito testimoniato dall’aumento del numero degli iscritti che da 9.000 del 1923 passarono a 18.000 del 1924 e a 25.000 nel 1925[4]. Soprattutto la “bolscevizzazione” del Partito, parola d’ordine lanciata nel V Congresso dell’Internazionale Comunista, e con essa l’organizzazione capillare del Partito basata sulla sostituzione delle “sezioni” con le “cellule” e sul nuovo ruolo dei militanti trasformati, alla stregua dei bolscevichi, in “rivoluzionari di professione”, permise al Partito di cominciare a mettere le radici nella società. Questa svolta era coerente con l’impostazione “gramsciana” che, come detto, sponsorizzata dall’Internazionale, cominciò ad essere maggioritaria nel Partito. Infatti nel 1924 Gramsci fu eletto Segretario e molti dirigenti periferici bordighiani furono sostituiti con altri fedeli al nuovo gruppo dirigente. Il definitivo passaggio di consegne da Bordiga a Gramsci si ebbe con il III Congresso del Pci a Lione del 1926, dove il 90,8 % dei delegati si schierò con Gramsci[5] che fu confermato Segretario generale del Partito. Le tesi approvate, le cosiddette “Tesi di Lione”, rappresentarono un autentico punto di svolta nella storia del giovane partito e si sostanziarono nella definizione di quelle che sarebbero dovute essere le “forze motrici” della rivoluzione in Italia, ovvero la classe operaia del nord e i contadini del Mezzogiorno.

Il compito del Partito era, come ricorda Agosti, di organizzare, unificare e mobilitare queste forze per portarle, attraverso una serie di obiettivi transitori, tra cui campeggiava quello di un’Assemblea costituente repubblicana, alla insurrezione e alla dittatura del proletariato[6]. Antonio Gramsci, inoltre, per primo intuì i problemi che potevano derivare dagli scontri che in quel periodo dilaniavano il Partito comunista in Russia dopo la morte di Lenin. Una sua lettera che denunciava tali pericoli fu bloccata dal più pragmatico Togliatti che era il delegato del Pci nell’Esecutivo dell’Internazionale, che non consegnò la missiva. Come ha giustamente scritto Spriano si può affermare che Togliatti, da “totus politicus” fece la scelta giusta in quanto non consentì che il Pci si alienasse i favori di Stalin, ma Gramsci, che può essere considerato politicamente “presbite” (come colui che vede male da vicino e bene da lontano) intuì tutto quello che avrebbe potuto portare la vittoria di Stalin[7].


[1] In queste elezioni Bordiga non fu candidato in quanto sosteneva l’inutilità di una sua elezione in Parlamento. Ecco un primo esempio del “settarismo” bordighista.
Cfr. Pistillo “Pagine di storia del Partito Comunista Italiano”, Piero Lacaita Editore.
[2] Cfr. Togliatti op. cit.
[3] Cfr. Spriano “Storia del Partito Comunista Italiano”, Einaudi.
[4] Cfr. Agosti op. cit.
[5] Cfr. Gramsci nel saggio “cinque anni di vita del Partito”. Il discorso è stato tratto da “I comunisti e l’unità della classe operaia” a cura della Sezione Centrale scuole di Partito del Pci.
In questo prezioso scritto Gramsci ricostruisce i primi cinque anni di vita del Partito. Gramsci rivendica la necessità della scissione dal Psi, ma ammette le difficoltà che il Pci ha avuto nei suoi primissimi anni di vita, giustificandole con le crisi acutissime della borghesia e del movimento operaio.
Dopo una breve analisi dei primi anni dl Pci, Gramsci procede nel descrivere “il nuovo corso del Partito”, l’importanza del III Congresso, il valore politico, i risultati e gli obiettivi fondamentali.
[6] Cfr. Agosti op cit.
[7] Cfr. Spriano “Intervista sulla storia del Pci a cura di Simona Colarizi”