IV - La caduta del Fascismo e il Partito nuovo

Con l’attacco della Germania ai danni dell’Unione Sovietica, l’Internazionale, che era ormai ridotta ad essere una succursale del “Ministero degli esteri” dell’Urss, cambiò immediatamente la sua posizione sulla guerra, passando dal concetto di “guerra degli imperialismi” a quello di “guerra antifascista”. I partiti comunisti, dovevano, secondo la nuova strategia, mettere da parte le velleità rivoluzionarie e rilanciare politiche di larga convergenza con le altre forze antifasciste. Non fu lo schiacciamento sulle posizioni dell’Urss, che in fondo è sempre esistito, ma la nuova esigenza di non mettersi contro le potenze capitalistiche che erano alleate nella guerra che portò allo scioglimento dell’Internazionale nel 1943[1]. In realtà le cose, nel mondo comunista, non cambiarono di molto in quanto l’Urss mantenne l’indiscussa supremazia su tutto il movimento.

In Italia dal 1941 il Pci, anche grazie all’importante lavoro di Umberto Massola, cominciò a riorganizzare la rete clandestina e a fare sentire la propria voce, anche attraverso la diffusione di un bollettino, il “Quaderno del lavoratore”, per mezzo del quale venivano diffuse le posizioni ufficiali del Partito, dettate direttamente da Togliatti attraverso Radio Mosca. Nello stesso tempo ripresero forza numerosi piccoli gruppi che, spesso con linea politica autonoma, continuavano dall’interno la loro lotta al Fascismo.

Il 25 luglio del 1943 Mussolini fu costretto a dimettersi dopo essere finito in minoranza nel “Gran consiglio del Fascismo” e l’improvvisa fine del Governo fascista, con i maggiori margini di manovra e con la conseguente uscita dei dirigenti del Pci dal carcere diede maggiore linfa all’organizzazione dei comunisti. La linea che portò avanti il Pci, spinto soprattutto dalla base, in quei mesi era piuttosto radicale e “chiedeva anche la testa” della Monarchia; questa posizione fu ulteriormente rafforzata dall’8 settembre e dalla fuga del Re.

Il peso del Pci in Italia era divenuto molto importante anche perché nel nord Italia la guerra con i tedeschi e con i fascisti della Repubblica di Salò era ancora tutta da combattere e dall’autunno del 1943 i militanti comunisti furono la parte preponderante dei gruppi clandestini della Resistenza, organizzati nelle “Brigate Garibaldi” sulle montagne e nei “Gap” e nelle “Sap” nelle città. Oltre alla lotta armata, il Pci continuò il suo lavoro politico continuando nell’organizzazione degli operai e promovendo scioperi ed agitazioni soprattutto nei primi mesi del 1944. La dichiarazione di guerra del Governo Badoglio ai danni della Germania pose il Pci dinnanzi ad un bivio: continuare nella linea, richiesta dalla base, di contrapposizione frontale a Badoglio e alla Monarchia o l’assunzione di responsabilità di governo.

Nel marzo del 1944 Togliatti, dopo aver avuto un incontro con Stalin, tornò in Italia e praticò quella che rimase famosa come la “svolta di Salerno” con la quale il Pci, anteponendo la ragione di Stato a quella della deposizione della Monarchia, sancì il proprio ingresso nel Governo. L’ingresso del Pci nei Governi formati da Badoglio e dal socialista riformista Bonomi andava letto, nell’intenzione di Togliatti, come il tentativo di accreditarsi come forza responsabile e fondatrice della democrazia italiana. L’insurrezione al nord, ormai prossima, nella quale il Pci, per la sua organizzazione, recitava un ruolo egemone, avrebbe fatto il resto.
Per questo motivo il 25 aprile del 1945 fu festeggiata la Liberazione dell’Italia senza che i moti, controllati dal Pci, sfociassero in alcun tentativo di rivoluzione.

La strategia portata avanti fu quella della “democrazia progressiva”, logica continuazione della “democrazia di tipo nuovo”, basata sull’idea che la partecipazione al governo e alla vita politica delle masse potesse, oltre che eliminare tutti i “residui” del Fascismo, fare entrare nella società cospicui elementi di Socialismo. Per ottenere questo era necessario che il Partito fosse ricostruito su basi diverse e diventasse un “partito nuovo”[2] ovvero un moderno partito di massa con profonde radici nei luoghi di lavoro e aderente alla società. Il Partito cominciò pertanto una crescita costante data sia dal punto di vista dell’organizzazione, che si sviluppò ormai capillarmente in tutte le città italiane, che in termine di numero di iscritti, passati dai 500.000 del 1944 al 1.700.000 del 1945, che lo portarono a diventare il più importante e grande partito comunista dell’Europa occidentale.


[1] Cfr. Spriano op. cit.
[2] Cfr. Togliatti in “Partito Nuovo” e “Che cosa è il Partito Nuovo”, saggi tratti da Rinascita di ott.-nov.-dic. 1944.