Introduzione

Pier Paolo Pasolini definendo il Pci “un paese nel paese” ha, secondo il mio punto di vista, colto l’aspetto più significativo della vita del Partito comunista più grande ed importante dell’Europa occidentale.

Il Partito comunista italiano è sempre stato una presenza costante e determinante nella storia di Italia del XX secolo. Dal momento della sua nascita e fino alla sua scomparsa infatti il Pci è stato un Partito che, nel bene o nel male, ha lasciato il segno in tutti i maggiori avvenimenti della storia italiana. Durante il Fascismo è stato l’unico partito ad essere presente clandestinamente in Italia e a cercare di opporsi, seppure con mezzi molto limitati, ad un Regime che altrimenti, dentro i confini nazionali, sarebbe stato incontrastato. Inoltre non può essere messo in discussione da nessuno il ruolo egemone del Pci sulle altre forze antifasciste durante la Resistenza. Ed infine, per oltre quaranta anni il Pci e la Dc sono stati i protagonisti principali di quella democrazia italiana che, sebbene con ruoli diversi, hanno contribuito entrambi a fondare e a far crescere.

Quindi se per la Dc, il principale partito di governo, può essere giustamente dato un giudizio storico positivo, lo stesso trattamento deve essere riservato al suo antagonista, il Pci, che pur subendo in molte fasi della sua esistenza i condizionamenti dell’Unione Sovietica, ha svolto continuamente un ruolo di primo piano nella politica italiana e può essere considerato a tutti gli effetti “un’altra importante parte del Paese”. Non si spiegherebbe altrimenti il perché la stessa Dc, con la fine del Pci, ha cessato di esistere. E infatti sebbene Tangentopoli abbia messo la pietra tombale sul partito dello “scudo crociato”, la Dc è morta solo dopo aver concluso il suo compito principale, ovvero sbarrare le porte del governo ai comunisti. La corruzione nella politica italiana è stata un leit motiv per tutti gli anni ’80, e lo ha dimostrato l’insistenza sulla “questione morale” di un leader pulito come Berlinguer, ma Tangentopoli, con tutte le sue conseguenze, è potuta partire solo dopo che il “pericolo comunista” era stato debellato.

Il Pci è stato inoltre un riferimento importante, ed in alcuni casi insostituibile, nelle storie individuali di milioni di donne e di uomini del nostro Paese. Una immensa comunità, un paese Partito che si estendeva in tutto il paese Italia e in cui “l’essere compagni” ed avere in tasca la tessera del Pci costituiva un inalienabile diritto di cittadinanza. In qualsiasi località italiana si trovasse, anche la più sperduta, un compagno del Pci poteva recarsi in una sezione del Partito per chiedere aiuto o semplicemente per intrattenersi. E’ una storia questa che potrebbero raccontare tanti meridionali emigrati al nord ai quali molte volte era il Pci a fornire la prima accoglienza e, ed è questa sicuramente la cosa più importante, ad agire per farli sentire “meno soli”. E quante altre storie avrebbero potuto raccontare i braccianti di Cerignola ai quali il Partito ha insegnato “a non togliersi il cappello davanti al padrone di lavoro” e a chiedere, con dignità, il rispetto dei propri diritti, facendoli così diventare “cittadini”. Quando questa storia è finita in molti si sono sentiti orfani e tantissime persone, famiglie e amicizie non sono state più le stesse.
Ma proprio perché è finita questa storia poteva essere raccontata. E nonostante gli ovvi limiti, poteva essere raccontata tutta, dall’inizio alla fine.

Ho provato con il lavoro svolto a fare questo e sono stati sicuramente preziosissimi per me i lavori di chi, negli anni precedenti. ha speso tanto tempo della propria vita per scrivere della storia di questo Partito. Tra questi il più grande di tutti, il punto di riferimento inarrivabile e che purtroppo ha dovuto lasciare incompleto il proprio lavoro, è stato Spriano, ma importanti contributi sono stati anche quelli di Agosti, Galli, Colarizi, per quanto riguarda la storia della politica italiana, e, perché no, del sanseverese Pistillo. Perché negare che senza il loro impegno un lavoro “relativamente sistematico” di ricostruzione della storia nazionale del Pci sarebbe stato irrealizzabile?

I - La nascita del Partito comunista in Italia

Il 21 gennaio del 1921 nel teatro S.Marco di Livorno nacque il Partito Comunista d’Italia (Pcd’I[1]) sezione italiana della III Internazionale. Il luogo che avrebbe dato i natali a quello che in futuro sarebbe diventato il più grande ed importante partito comunista dell’Europa occidentale, era stato utilizzato durante la guerra appena conclusa come deposito e si presentava, come ricordò Terracini[2], come un luogo angusto, senza luce, privo di sedie e di panche, con finestre senza vetri ed il tetto sfondato. Coloro che costituirono il Pci furono una minoranza dei delegati del XVII Congresso del Psi, che si tenne in quei giorni a Livorno in un altro teatro, il Goldoni.

Il Congresso socialista aveva appena rifiutato, con solo un quarto di voti contrari, come previsto nelle 21 condizioni per l’adesione all’Internazionale Comunista, di espellere i membri della corrente riformista del Partito. La minoranza, che rappresentava 58.783 iscritti su 216.337, e che abbandonò il Goldoni riunendosi al S.Marco, era costituita dal gruppo “astensionista” che faceva capo a Bordiga, futuro primo leader del nuovo Partito, dal gruppo dell’Ordine Nuovo[3] di Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca, dalla corrente massimalista di Marabini e Graziadei e dalla stragrande maggioranza della Federazione giovanile socialista (Fgs)[4]. Questi gruppi oltre a dichiarare la nascita del nuovo partito elessero anche un primo Comitato Centrale[5], nel quale erano ben visibili i rapporti di forze interni.

Le cause che provocarono la scissione del Psi vanno ricercate in primo luogo oltre i confini italiani. Infatti erano diventate fortissime le pressioni del nuovo centro mondiale della politica comunista, la Terza Internazionale, che era nata a Mosca nel 1919 e che, essendo certa della possibilità di esportare in tutta Europa il proprio modello vincente, con le 21 condizioni che poneva per l’adesione alla stessa, chiedeva, oltre che l’epurazione delle correnti riformiste, l’assunzione del nome comunista in luogo di quello socialista. Ma se è indubbio che la Rivoluzione d’Ottobre facesse da catalizzatore, in tutti i paesi, per i settori più rivoluzionari dei partiti operai, allo stesso tempo non possono essere dimenticate le particolarità del Psi, che si era già caratterizzato per un proprio atteggiamento autonomo durante la I Guerra Mondiale, quando diversamente dagli altri partiti socialisti europei che appoggiarono le rispettive borghesie, lanciò la parola d’ordine “né aderire né sabotare”.

All’interno del Partito, si erano acuite, anche a causa della situazione post bellica, le divisioni politiche tra le tre correnti principali: la destra riformista e socialdemocratica di Turati, i massimalisti di Serrati, che erano la vera maggioranza del Partito, e la componente di Bordiga e Gramsci. Ma come ricorda Agosti, l’analisi teorica fu sempre piuttosto carente nei socialisti di quel periodo[6], che amavano parlare di rivoluzione, senza mai, ed in questo era chiara la differenza con i bolscevichi, preoccuparsi di discutere di cosa fare per arrivarci, magari confidando nell’ineluttabilità della stessa. Queste peculiarità proprie del socialismo italiano fecero sì che si arrivasse alla nascita di un partito comunista rivoluzionario con molto ritardo rispetto agli altri paesi europei, e senza un sufficiente dibattito ideologico, come quello che ad esempio era avvenuto nella socialdemocrazia tedesca. Si giunse per questi motivi al paradosso che il Pci, che era il partito che doveva nascere per fare la rivoluzione, fu formato proprio nel momento in cui sfumarono le condizioni per la rivoluzione, che erano sicuramente più mature nel biennio del 1919-20.


[1] Il Pcd’I cambiò la denominazione in “Partito Comunista Italiano” (Pci) in seguito dello scioglimento dell’Internazionale Comunista (Comintern) avvenuta nel 1943. Utilizzando un metodo di semplificazione adotteremo sempre la dicitura Pci.
[2] Cfr. “La storia del futuro Livorno 1921 – 2001” numero unico edito dalla Direzione nazionale del P.r.c. in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita del Pci.
[3] L’”Ordine Nuovo” fu una rivista diretta da Gramsci e stampata per la prima volta il I maggio del 1919. La rivista diventerà ben presto l’organo dei Consigli di Fabbrica.
Cfr. Mordenti “Introduzione a Gramsci”, Datanews Editrice.
[4] La Fgs, con il 90% dei voti, nel suo ultimo Congresso si trasformò in Federazione giovanile comunista italiana (Fgci).
I primi Segretari nazionali della Fgci furono Giuseppe Berti e, dopo il 1923, Giuseppe Dozza, storico futuro Sindaco di Bologna.
La Fgci in seguito ebbe un ruolo importante soprattutto durante la Guerra di Liberazione: furono create, in particolare, due organizzazioni parallele, il Fronte della Gioventù al Nord e, dopo l’8 settembre 1943, il MGC nell’Italia centro meridionale.
[5] I 15 componenti del Comitato Centrale furono, in ordine alfabetico: Belloni, Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gennai, Gramsci, Grieco, Marabini, Misiano, Parodi, Polano, Repossi, Sessa, Tarsia, Terracini. Di questi otto erano Bordighisti, cinque massimalisti e due di Ordine Nuovo.
Cfr. Togliatti “Gramsci”, Editori Riuniti.
[6] Cfr Agosti “Storia del Pci”, Editori Laterza.

II - Da Bordiga a Gramsci

Nel maggio del 1921 si tennero le elezioni politiche e i comunisti si presentarono con una lista autonoma[1] che raccolse solo 300.000 voti e 15 Deputati; il Psi, invece, conservò quasi intatta la propria forza elettorale riportando 1.600.000 voti (122 seggi). Questo appuntamento fu contrassegnato da azioni di disturbo da parte dei fascisti che cercarono di non far votare molti socialisti e comunisti. Contro il dilagare dello squadrismo fascista nacquero gli “Arditi del popolo”, movimento che si dichiarava “apolitico”, ma di cui facevano parte molti socialisti e alcuni comunisti. La linea molto settaria del Pci di Bordiga, che vietò ai suoi iscritti di partecipare al movimento, impedì il crescere di quell’esperienza, che fallì miseramente. Nel 1922 il II Congresso del Pci, che si tenne a Roma, confermò la linea di Bordiga, fondata sulla esclusione di qualsiasi tipo di accordo con i socialisti, e questo provocò, anche a causa della scissione dell’ala riformista del Psi, i primi attriti con l’Internazionale, la quale pose con forza il tema della riunificazione con il Psi di Serrati.

Intanto il Fascismo con la “marcia su Roma” dell’ottobre 1922 si insediò, con il silenzio assenso della Corona, al potere e Antonio Gramsci si rese conto che la politica di Bordiga, che aveva condotto all’isolamento del Partito andava superata[2]. Il Pci, infatti, si trovava in quel momento in rottura sia con l’Internazionale comunista, che avrebbe dovuto rappresentare il punto di riferimento per qualsiasi partito comunista, sia con le altre forze, di sinistra, italiane. Fu in questo contesto che Gramsci cominciò a lavorare per un cambio di maggioranza all’interno del Partito e, con l’indispensabile aiuto di altri importanti dirigenti del Partito, quali Togliatti, Terracini, Scoccimarro e, in un secondo momento, Ruggero Grieco, oltre che con l’appoggio dell’Internazionale, fondò il gruppo, cosiddetto “di centro”, che si contrapponeva alla “destra” di Tasca e soprattutto alla “sinistra” di Bordiga.

Bordiga ebbe ancora la maggioranza con 41 delegati su 67[3] alla Conferenza organizzativa, tenuta clandestinamente in un albergo di Como nell’aprile del 1924, ma il peso politico del centro era in crescita se si considera che il Pci, alle elezioni politiche del 1924, si presentò con un’unica lista con quelli che nel Psi si rivedevano nelle posizioni della Terza Internazionale. Alla fine del 1923 vi era stato, infatti, l’avvicinamento, che culminò nell’agosto del 1924 nell’entrata nel Pci, di numerosi e validi dirigenti del Psi, denominati appunto “terzini” per la loro vicinanza alla linea politica della III Internazionale, e che erano rimasti nel loro partito ai tempi della scissione di Livorno. Tra questi i più importanti furono il vecchio leader del Psi Serrati e il sindacalista di Cerignola Giuseppe Di Vittorio.

Alle elezioni del 1924, che furono tenute con la legge Acerbo ribattezzata “legge truffa” che assicurava i due terzi dei deputati ai fascisti, il Partito comunista, nonostante i ristretti margini d’agibilità politica, ottenne un discreto risultato conseguendo 268.000 voti (2,7%) e 19 Deputati eletti. Se si considera che il Psi perse oltre la metà dei consensi crollando con poco più di mezzo milione di voti al 8.2%, si può affermare che quelle elezioni registrarono una sostanziale tenuta di una forza, il Pci, che sebbene settaria, era caratterizzata da una importante motivazione dei propri militanti, che nonostante le prime persecuzioni della dittatura fascista, che nel 1922 aveva fatto arrestare i tre quarti dei segretari di Federazione oltre che allo stesso Bordiga, continuavano a svolgere attività politica e a credere nel Partito.

Ma i crimini del Fascismo erano solo all’inizio e l’escalation di cieca violenza culminò con l’assassinio di Matteotti, il deputato socialista che aveva denunciato in Parlamento i brogli delle ultime elezioni. Il conseguente sdegno generale mise un po’ in crisi il nuovo regime ed il Pci ebbe maggiori e nuovi margini di manovra che si concretizzarono con un consistente miglioramento nell’organizzazione del Partito testimoniato dall’aumento del numero degli iscritti che da 9.000 del 1923 passarono a 18.000 del 1924 e a 25.000 nel 1925[4]. Soprattutto la “bolscevizzazione” del Partito, parola d’ordine lanciata nel V Congresso dell’Internazionale Comunista, e con essa l’organizzazione capillare del Partito basata sulla sostituzione delle “sezioni” con le “cellule” e sul nuovo ruolo dei militanti trasformati, alla stregua dei bolscevichi, in “rivoluzionari di professione”, permise al Partito di cominciare a mettere le radici nella società. Questa svolta era coerente con l’impostazione “gramsciana” che, come detto, sponsorizzata dall’Internazionale, cominciò ad essere maggioritaria nel Partito. Infatti nel 1924 Gramsci fu eletto Segretario e molti dirigenti periferici bordighiani furono sostituiti con altri fedeli al nuovo gruppo dirigente. Il definitivo passaggio di consegne da Bordiga a Gramsci si ebbe con il III Congresso del Pci a Lione del 1926, dove il 90,8 % dei delegati si schierò con Gramsci[5] che fu confermato Segretario generale del Partito. Le tesi approvate, le cosiddette “Tesi di Lione”, rappresentarono un autentico punto di svolta nella storia del giovane partito e si sostanziarono nella definizione di quelle che sarebbero dovute essere le “forze motrici” della rivoluzione in Italia, ovvero la classe operaia del nord e i contadini del Mezzogiorno.

Il compito del Partito era, come ricorda Agosti, di organizzare, unificare e mobilitare queste forze per portarle, attraverso una serie di obiettivi transitori, tra cui campeggiava quello di un’Assemblea costituente repubblicana, alla insurrezione e alla dittatura del proletariato[6]. Antonio Gramsci, inoltre, per primo intuì i problemi che potevano derivare dagli scontri che in quel periodo dilaniavano il Partito comunista in Russia dopo la morte di Lenin. Una sua lettera che denunciava tali pericoli fu bloccata dal più pragmatico Togliatti che era il delegato del Pci nell’Esecutivo dell’Internazionale, che non consegnò la missiva. Come ha giustamente scritto Spriano si può affermare che Togliatti, da “totus politicus” fece la scelta giusta in quanto non consentì che il Pci si alienasse i favori di Stalin, ma Gramsci, che può essere considerato politicamente “presbite” (come colui che vede male da vicino e bene da lontano) intuì tutto quello che avrebbe potuto portare la vittoria di Stalin[7].


[1] In queste elezioni Bordiga non fu candidato in quanto sosteneva l’inutilità di una sua elezione in Parlamento. Ecco un primo esempio del “settarismo” bordighista.
Cfr. Pistillo “Pagine di storia del Partito Comunista Italiano”, Piero Lacaita Editore.
[2] Cfr. Togliatti op. cit.
[3] Cfr. Spriano “Storia del Partito Comunista Italiano”, Einaudi.
[4] Cfr. Agosti op. cit.
[5] Cfr. Gramsci nel saggio “cinque anni di vita del Partito”. Il discorso è stato tratto da “I comunisti e l’unità della classe operaia” a cura della Sezione Centrale scuole di Partito del Pci.
In questo prezioso scritto Gramsci ricostruisce i primi cinque anni di vita del Partito. Gramsci rivendica la necessità della scissione dal Psi, ma ammette le difficoltà che il Pci ha avuto nei suoi primissimi anni di vita, giustificandole con le crisi acutissime della borghesia e del movimento operaio.
Dopo una breve analisi dei primi anni dl Pci, Gramsci procede nel descrivere “il nuovo corso del Partito”, l’importanza del III Congresso, il valore politico, i risultati e gli obiettivi fondamentali.
[6] Cfr. Agosti op cit.
[7] Cfr. Spriano “Intervista sulla storia del Pci a cura di Simona Colarizi”

III - La dittatura ed il fermento antifascista

Nel 1926 il Fascismo portò a compimento la propria trasformazione e alle azioni degli squadristi si aggiunse, a tutti gli effetti, la dura repressione dello Stato. Nel corso di quell’anno Mussolini fece approvare delle misure speciali che rafforzarono i poteri del Capo del Governo al quale non era più richiesto di rispondere del proprio operato davanti al Parlamento, che fu ridotto a semplice luogo di rappresentanza. I giornali furono chiusi e, allo stesso tempo, tutte le associazioni furono sottoposte al controllo della polizia e, di fatto, furono aboliti anche i sindacati, essendo riconosciuti quali interlocutori solo i sindacati fascisti. Inoltre furono abolite le amministrazioni comunali e provinciali e sostituite con autorità governative, i Podestà. Infine i partiti d’opposizione furono sciolti e fu dato mandato al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i cui giudici erano membri della milizia o militari, di disporre per gli antifascisti il carcere, o più spesso, il confino. Le cosiddette leggi "fascistissime" costituirono, quindi, il fondamento sul quale si costruì il regime, che era caratterizzato dalla sostanziale coincidenza tra le strutture dello Stato e del Partito fascista, che rimaneva in questo modo l’unica forza politica legittimata ad esistere. Nel 1926 quindi l'Italia cessò di essere uno Stato liberale e divenne uno Stato totalitario.

Il Partito comunista fu duramente colpito dalla repressione e i suoi maggiori dirigenti finirono in carcere. Durante il “ventennio” il Pci fu il partito antifascista che pagò il prezzo maggiore alla repressione[1]. Il quartier generale del Pci fu spostato a Parigi, mentre in Italia si cercò di mantenere un’organizzazione clandestina. Con l’arresto di Gramsci, Togliatti, che era sfuggito all’arresto solo perché si trovava all’estero, divenne Segretario generale, mentre, almeno in un primo momento, l’azione clandestina in Italia fu affidata a Camilla Ravera. Anche se il Pci era l’unico partito antifascista che aveva organizzato una rete di questo tipo, a causa della repressione della Polizia fascista che utilizzava con efficacia il metodo degli “infiltrati”, ben presto l’iniziativa politica interna si indebolì, come testimonia il numero degli iscritti passati dai 10.000 del 1927 ai circa 7.000 del 1928[2] . Il Pci che era nato ritenendo che la rivoluzione fosse imminente fu colto di sorpresa dal consolidamento del Fascismo, ma nonostante tutto continuò a ritenere che quella fase politica sarebbe stata solo una breve parentesi autoritaria e che ben presto sarebbero ritornate le condizioni per la presa del potere.

I rapporti con l’Internazionale comunista, che erano stati fortemente rafforzati da Togliatti, si deteriorarono bruscamente nel 1929 a causa della presa di posizione di Tasca, che aveva sostituito Togliatti a Mosca, in favore di Bucharin, che si contrapponeva in quel periodo a Stalin. Dopo che tutta la linea del Pci, da Lione in poi, fu messa in discussione, Togliatti espulse Tasca e allineò di nuovo il Partito sulle posizioni dell’Internazionale, che, a causa di Stalin, erano ritornate ad essere piuttosto settarie. Infatti il Pci fu costretto ad associare ai socialisti italiani e al giovane movimento di Giustizia e Libertà, la teoria del “socialfascismo”, che poneva le sue basi sull’equiparazione tra Fascismo e Socialdemocrazia, intesi, entrambi, come metodi utilizzati dalla borghesia per conservare il potere. Furono escluse, inoltre, le ipotesi, avanzate a Lione da Gramsci, di una fase intermedia che ci sarebbe dovuta essere dopo la caduta del Fascismo.

Queste posizioni provocarono la più grave crisi che il Partito aveva conosciuto nei suoi primi dieci anni di vita[3]: Gramsci e Terracini, dal carcere, fecero sentire la loro voce di dissenso e tre dirigenti nazionali, Leonetti, Ravazzoli e Tresso, furono espulsi dal Partito. Nonostante il settarismo, questo cambio di indirizzo politico generò una ripresa dell’attività in Italia del Pci, che fu spinta in particolare da Longo, e un forte ringiovanimento della base dei militanti. Il passaggio generazionale da chi aveva costituito il Partito a chi ne era entrato in una situazione di clandestinità pose le basi di un nuovo radicamento del Pci nella società, che sarà visibile soprattutto negli anni successivi al Fascismo. A quel periodo e quelle condizioni vanno fatte risalire le basi per la nascita delle roccaforti in Emilia e Toscana, vecchi feudi socialisti, e la crescita nelle campagne. Il Pci si era riuscito a caratterizzare come l’unica forza antifascista realmente attiva in Italia e questo aveva attratto molti giovani che provenivano anche da altre culture, di cui molti erano di famiglie socialiste o popolari, che andavano spesso a sostituire i quadri che finivano in carcere. Nelle campagne, infine, era molto più facile, rispetto che nelle città, organizzare una rete clandestina.

Quando il Fascismo pose mano alle leve del consenso, militarizzando, organizzando e canalizzando le masse, il Pci, pur nelle accresciute difficoltà che impedivano un’azione che potesse essere in qualche modo “di massa”, fu attento e flessibile nel capire l’importanza che di suddetti strumenti. Le strutture fasciste, sia perché erano gli unici luoghi in cui era possibile parlare di politica, sia per rifuggire dalle accuse di “carbonarismo”[4] che spesso l’Internazionale rivolgeva al Pci, divennero un fondamentale bacino di utenza, soprattutto negli anni tra il 1931-32 per propagandare le idee comuniste e soprattutto per mettere in evidenza le contraddizioni del Regime.

Con la crescita del pericolo nazista l’Internazionale comunista cambiò strategia e tra il 1934 e il 1935 lanciò la linea di riunire in un “fronte popolare” tutte le forze che si opponevano all’avanzata dei Fascismi. Se la Francia fu il “paese pilota” in cui si realizzò l’unità delle sinistre, nei partiti antifascisti italiani la situazione fu leggermente diversa. Il Pci, che aveva faticato molto per accettare la “svolta” del 1929, ebbe una sofferenza ancora maggiore per uscire dal settarismo a cui quella svolta sembrava averlo destinato, in quanto, nell’Italia fascista, i militanti si erano trovati da soli a fronteggiare la dittatura. Ma un po’ per volta il lavoro di Togliatti e di Grieco, che fu segretario dal 1934 al 1938[5], diede i suoi frutti, e, nell’agosto del 1934, fu sottoscritto il “patto d’unità d’azione” tra socialisti e comunisti, che, nonostante i distinguo, segnò la riapertura del dialogo tra i due partiti operai.

La speranza di un eventuale insuccesso della campagna in Etiopia, che avrebbe potuto destabilizzare il Regime, andò ben presto delusa con la vittoria italiana e al Pci non restò altro che riprendere la vecchia strategia di operare nelle organizzazioni di massa del Fascismo, lanciando una campagna di “fraternizzazione verso i fratelli in camicia nera”[6]. La campagna che fu lanciata attraverso l’appello pubblicato dallo “Stato operaio” dal titolo “La salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!”[7] non fu accolta molto bene delle altre forze antifasciste e dei militanti italiani del Partito.

Con l’inizio della guerra civile in Spagna, inoltre, riprese con ancora maggiore forza nei militanti della sinistra il sentimento antifascista. A questo punto la Direzione del Pci a Parigi assecondò le richieste che provenivano dal Partito e mise da parte la linea di “fraternizzazione con le masse fasciste” per organizzare la solidarietà ai compagni spagnoli con le “Brigate internazionali” nelle quali si arruolarono 3000 comunisti italiani che avevano tra i loro comandanti Longo e Di Vittorio. L’esperienza spagnola fu utilissima, e non solo perché preparò quadri e militanti del Partito a quella che sarebbe stata la Resistenza in Italia, ma anche perché l’obiettivo di una “democrazia di tipo nuovo”, che si basava sulla cacciata del Fascismo e sull’egemonia dei partiti operai e che si era pensata per la situazione spagnola, costituì la base per un accordo ben più profondo del precedente tra Psi e Pci, che fu sancito da un nuovo “patto d’unità d’azione” nel luglio del 1937.

Si cominciò in quei mesi a saldare il fronte antifascista che risiedeva all’estero: già da qualche mese era stata fondata “l’Unione popolare” che vedeva la presenza dei comunisti, di Giustizia e libertà e dei repubblicani (in seguito aderirono anche i socialisti), ma il Pci, che era l’unico partito organizzato anche in Italia, era attento non solo all’unità antifascista dei partiti emigrati, ma anche, e soprattutto, alla capacità di incidere realmente nel paese[8]. Questa posizione, chiaramente pragmatica, finiva per mettere in secondo piano gli altrettanto importanti aspetti programmatici, come ad esempio il riempire di contenuti il concetto di “democrazia di nuovo tipo”, ai quali sembrarono prestare più attenzione le altre forze antifasciste.

L’azione politica del Pci andò in crisi a causa del rapporto con l’Unione Sovietica, in primo luogo a causa dell’autoritarismo di Stalin, che costrinse Togliatti a prendere duramente posizione contro i crimini del Trotskismo e il Partito a subire l’accusa di “scarsa vigilanza” che portò molti problemi interni culminati con lo scioglimento del Comitato centrale. Ma fu soprattutto il Patto Ribbentrop-Molotov a creare le difficoltà più grosse[9] in quanto fu impossibile conciliare l’unità antifascista con l’approvazione del patto fra sovietici e nazisti e il Pci fu costretto ad appiattirsi sulle posizioni dell’Internazionale che teorizzava per i comunisti l’equidistanza tra i diversi imperialismi. La situazione si aggravò ulteriormente, quando con l’invasione tedesca il Pci si ritrovò in clandestinità anche a Parigi. Togliatti fu arrestato, ma non essendo stato riconosciuto, se la cavò con pochi mesi di carcere e dopo aver riorganizzato un embrione di centro estero del Partito, andò a Mosca dove l’Internazionale, avendo sciolto definitivamente l’Ufficio politico e il Comitato centrale, gli affidò la direzione solitaria del Pci.

La situazione all’interno del Partito, che si era deteriorata con le rotture di Terracini e Ravera, si tranquillizzò grazie alla Dichiarazione di Guerra di Mussolini a Francia ed Inghilterra del 1940, che fece si inoltre che si ricreassero le condizioni per una nuova unità antifascista, che fu suggellata nel 1941 a Tolosa da un accordo tra Pci, Psi e Gl.


[1] Nel “ventennio” fascista i comunisti condannati dal Tribunale speciale furono 4000 per complessivi 230 secoli di galera. Cfr. Togliatti “il Partito”, Edito dalla sezione centrale di stampa e propaganda del Pci.
[2] Cfr. Agosti op. cit.
[3] Cfr. Pistillo op. cit.
[4] Cfr. Agosti op. cit.
[5] Disse Bruno Grieco, figlio di Ruggero, nella scheda di presentazione del libro:
“La storia del Partito Comunista è incompleta: molto del periodo in cui Ruggero Grieco ne è stato segretario, ossia dalla seconda metà del 1934 alla primavera del 1938, viene ignorata o liquidata in poche pagine. Togliatti ha occultato gran parte delle carte di quel periodo, timoroso della popolarità che Grieco aveva acquistato negli ambienti dell’antifascismo italiano, tra i quali era stimato per essersi fatto promotore del patto di Unità d’azione Pci-Psi, dei ripetuti contatti con Giustizia e Libertà, degli appelli rivolti dal Comitato Centrale ai cattolici. È proprio in quegli anni, infatti, che il Comitato Centrale del Pci rompe con la teoria del socialfascismo. Il Comitato Centrale, sotto la guida di Grieco, tese ad applicare tutte le indicazioni che pervenivano direttamente o indirettamente da Gramsci, a costruire un partito che tesseva le fila dell’antifascismo, capace di preparare il terreno all’insurrezione e alla Resistenza in Italia. A rivelare per primo alcuni di questi aspetti oscuri è stato nel 1966 Giorgio Amendola che fece sapere pubblicamente che Grieco era stato per quattro anni segretario del partito. Grieco stesso, al figlio Bruno, non l'aveva mai comunicato. I documenti d’archivio relativi a quel periodo sono tuttora "riservati". Ma molto, moltissimo è stato possibile portare comunque alla luce. Le carte del Comintern, contenute nel libro, sono rivelatrici e vengono pubblicate per la prima volta.” Cfr. Grieco "Un partito non stalinista. Pci 1936: «Appello ai fratelli in camicia nera»", Marsilio.
[6] Cfr. Agosti op. cit. e Pistillo op. cit.
[7] Cfr. Agosti op. cit.
[8] Cfr. “Problemi e discussioni” , editoriale di Stato Operaio del 15 maggio 1939, tratto da “I comunisti e l’unità della classe operaia” a cura della sezione centrale Scuole di Partito del Pci.
[9] Cfr. Pistillo op. cit.

IV - La caduta del Fascismo e il Partito nuovo

Con l’attacco della Germania ai danni dell’Unione Sovietica, l’Internazionale, che era ormai ridotta ad essere una succursale del “Ministero degli esteri” dell’Urss, cambiò immediatamente la sua posizione sulla guerra, passando dal concetto di “guerra degli imperialismi” a quello di “guerra antifascista”. I partiti comunisti, dovevano, secondo la nuova strategia, mettere da parte le velleità rivoluzionarie e rilanciare politiche di larga convergenza con le altre forze antifasciste. Non fu lo schiacciamento sulle posizioni dell’Urss, che in fondo è sempre esistito, ma la nuova esigenza di non mettersi contro le potenze capitalistiche che erano alleate nella guerra che portò allo scioglimento dell’Internazionale nel 1943[1]. In realtà le cose, nel mondo comunista, non cambiarono di molto in quanto l’Urss mantenne l’indiscussa supremazia su tutto il movimento.

In Italia dal 1941 il Pci, anche grazie all’importante lavoro di Umberto Massola, cominciò a riorganizzare la rete clandestina e a fare sentire la propria voce, anche attraverso la diffusione di un bollettino, il “Quaderno del lavoratore”, per mezzo del quale venivano diffuse le posizioni ufficiali del Partito, dettate direttamente da Togliatti attraverso Radio Mosca. Nello stesso tempo ripresero forza numerosi piccoli gruppi che, spesso con linea politica autonoma, continuavano dall’interno la loro lotta al Fascismo.

Il 25 luglio del 1943 Mussolini fu costretto a dimettersi dopo essere finito in minoranza nel “Gran consiglio del Fascismo” e l’improvvisa fine del Governo fascista, con i maggiori margini di manovra e con la conseguente uscita dei dirigenti del Pci dal carcere diede maggiore linfa all’organizzazione dei comunisti. La linea che portò avanti il Pci, spinto soprattutto dalla base, in quei mesi era piuttosto radicale e “chiedeva anche la testa” della Monarchia; questa posizione fu ulteriormente rafforzata dall’8 settembre e dalla fuga del Re.

Il peso del Pci in Italia era divenuto molto importante anche perché nel nord Italia la guerra con i tedeschi e con i fascisti della Repubblica di Salò era ancora tutta da combattere e dall’autunno del 1943 i militanti comunisti furono la parte preponderante dei gruppi clandestini della Resistenza, organizzati nelle “Brigate Garibaldi” sulle montagne e nei “Gap” e nelle “Sap” nelle città. Oltre alla lotta armata, il Pci continuò il suo lavoro politico continuando nell’organizzazione degli operai e promovendo scioperi ed agitazioni soprattutto nei primi mesi del 1944. La dichiarazione di guerra del Governo Badoglio ai danni della Germania pose il Pci dinnanzi ad un bivio: continuare nella linea, richiesta dalla base, di contrapposizione frontale a Badoglio e alla Monarchia o l’assunzione di responsabilità di governo.

Nel marzo del 1944 Togliatti, dopo aver avuto un incontro con Stalin, tornò in Italia e praticò quella che rimase famosa come la “svolta di Salerno” con la quale il Pci, anteponendo la ragione di Stato a quella della deposizione della Monarchia, sancì il proprio ingresso nel Governo. L’ingresso del Pci nei Governi formati da Badoglio e dal socialista riformista Bonomi andava letto, nell’intenzione di Togliatti, come il tentativo di accreditarsi come forza responsabile e fondatrice della democrazia italiana. L’insurrezione al nord, ormai prossima, nella quale il Pci, per la sua organizzazione, recitava un ruolo egemone, avrebbe fatto il resto.
Per questo motivo il 25 aprile del 1945 fu festeggiata la Liberazione dell’Italia senza che i moti, controllati dal Pci, sfociassero in alcun tentativo di rivoluzione.

La strategia portata avanti fu quella della “democrazia progressiva”, logica continuazione della “democrazia di tipo nuovo”, basata sull’idea che la partecipazione al governo e alla vita politica delle masse potesse, oltre che eliminare tutti i “residui” del Fascismo, fare entrare nella società cospicui elementi di Socialismo. Per ottenere questo era necessario che il Partito fosse ricostruito su basi diverse e diventasse un “partito nuovo”[2] ovvero un moderno partito di massa con profonde radici nei luoghi di lavoro e aderente alla società. Il Partito cominciò pertanto una crescita costante data sia dal punto di vista dell’organizzazione, che si sviluppò ormai capillarmente in tutte le città italiane, che in termine di numero di iscritti, passati dai 500.000 del 1944 al 1.700.000 del 1945, che lo portarono a diventare il più importante e grande partito comunista dell’Europa occidentale.


[1] Cfr. Spriano op. cit.
[2] Cfr. Togliatti in “Partito Nuovo” e “Che cosa è il Partito Nuovo”, saggi tratti da Rinascita di ott.-nov.-dic. 1944.

V - Le basi della democrazia italiana

Il Partito Nuovo nel 1946, dopo la Liberazione, poteva considerarsi una realtà. Il Pci, con i suoi due milioni di iscritti[1], era diventato il più grande partito di massa dell’Italia del dopoguerra, con un eccezionale radicamento nelle “regioni rosse”[2], con una buona forza nelle città operaie del nord ed in costante crescita nelle campagne meridionali. Paradossalmente l’imponente mole organizzativa non si tramutò in un’identica forza elettorale, in quanto alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946[3] il Pci fu superato nettamente dalla Dc e, per poche migliaia di voti, dal Psi riportando 4.300.000 preferenze. Il Pci ottenne esclusivamente i consensi dei suoi militanti o simpatizzanti, quasi tutti operai, contadini o intellettuali, e non riuscì ad esercitare alcuna forza attrattiva verso altre classi sociali, in primo luogo nei confronti del “ceto medio”[4].

Le maggiori responsabilità furono imputate alla “doppiezza” del Pci, in altre parole a quell’atteggiamento equivoco che fu considerato poco rassicurante, e che teneva insieme due visioni politiche contrapposte: l’impegno nelle Istituzioni democratiche, che contraddistingueva la linea ufficiale, ed il legame con l’Unione Sovietica e le velleità rivoluzionarie, presenti in maniera cospicua nella base e nei dirigenti periferici. Nei militanti del Partito, infatti, emergeva ancora una volta, e si mantenne per moltissimi anni, il solito dualismo, che ha sempre caratterizzato la sinistra, tra il cosiddetto “cuore”, che sognava la Rivoluzione e il “Mito dell’Unione Sovietica”, e il “cervello”, che studiava le modalità per raggiungere la democrazia.

Togliatti, in prima persona, contrastò duramente le iniziative che oltrepassavano la linea ufficiale temendo che le stesse vanificassero gli importanti sforzi compiuti dal Pci per acquistare credibilità e per essere una forza che potesse ambire a conseguire democraticamente il governo del Paese. Togliatti in verità perseguiva con coerenza, e non con “doppiezza”, la scelta democratica, in quanto essa assumeva per lui un valore strategico e questa scelta non deve essere confusa con una “via meramente parlamentare e legalitaria”[5]. Inoltre Togliatti, ritenendo quasi superflui i piccoli partiti[6], preferì rapporti stretti con gli altri due partiti di massa e la sua linea politica si concretizzò con il conseguimento dell’unità sindacale[7], con la partecipazione e l’appoggio ai Governi nazionali[8], dal 1944 al 1947, e con il clima di collaborazione instaurato all’interno dell’Assemblea Costituente. Che fosse la paura di essere politicamente emarginato che spinse il Pci alla ricerca di queste convergenze è fuori discussione[9], ma, allo stesso modo, non sono opinabili gli altrettanto indiscussi benefici che questa linea politica portò alla giovane democrazia italiana.

La collaborazione nel governo tra le sinistre e la Dc non durò però a lungo. Le difficoltà di reggere politiche non propriamente “popolari” tipiche di un periodo d’austerità come quello del dopoguerra si fecero sentire nelle sinistre e soprattutto nel Pci. Allo stesso tempo le pressioni sulla Dc delle ali più conservatrici della Chiesa e, ancora di più degli americani, che si manifestarono in maniera evidente nel famoso viaggio del gennaio del 1947 negli Usa di De Gasperi, divennero fortissime e non più eludibili. Infatti, l’Italia, a causa della sua fragilità economica, aveva la necessità di aiuti finanziari e gli Usa subordinarono gli stessi alla cacciata delle sinistre dal governo da parte dello Statista trentino. La svolta fu ratificata nel maggio del 1947 con la formazione di un nuovo Gabinetto De Gasperi privo del Pci e del Psi: da quel momento in poi il Pci non rientrò mai più nel Governo dell’Italia.

A differenza di quanto avvenuto nella maggioranza governativa, l’Assemblea Costituente continuò i suoi lavori nel medesimo clima di collaborazione e quei giorni furono ricordati come una delle più belle pagine della storia politica italiana. Va segnalata, in particolar modo, la lungimiranza politica di Palmiro Togliatti, che fu testimoniata anche da alcune clamorose posizioni[10], e che poneva, davanti a tutto, la nascita e la crescita della democrazia italiana, di cui il Pci sarebbe dovuto essere uno dei pilastri. Togliatti, che temeva molto le possibili reazioni della base del Partito alla cacciata dal governo, diede questa “risposta democratica” per smentire tutti quelli che affermavano che “i comunisti una volta al potere non lo lasciano più”[11].

Gli sforzi furono premiati e nel gennaio del 1948 fu approvata la nuova Costituzione, molto “avanzata” nei principi e nei contenuti, e la completa attuazione della stessa rappresentò il principale programma politico su cui fece leva il Pci negli altri suoi quarantacinque anni di vita. La linea politica del Pci non piacque agli altri partiti comunisti, i quali nella Conferenza di Szklarska Poreba in Polonia del settembre del 1947[12], con un particolare accanimento soprattutto del partito jugoslavo, misero sotto accusa l’intero gruppo dirigente del Pci, che in quella circostanza era guidato da Luigi Longo. Anche in questo caso Togliatti, a malincuore, operò un ennesimo cambio di rotta teso ad uniformare le posizioni del Pci a quelle delle altre forze comuniste. Nel VI Congresso del Pci, svoltosi a Milano nel gennaio del 1948, fu “messa da parte” l’originale idea di una “via italiana al Socialismo” e accentuata la propensione dell’organizzazione verso il “Partito dei quadri” più consono all’ortodossia marxista-leninista.

Il Psi attraversò in quel periodo una crisi ancora più profonda. La scissione di Palazzo Barberini del gennaio del 1947 operata dal gruppo socialdemocratico di Saragat, e che indebolì il Psi di almeno un terzo dei consensi elettorali, provocò una ferita nel partito più antico d’Italia che, nei fatti, non fu mai rimarginata. Questo evento consegnò al Pci, da quel momento in poi, l’egemonia della sinistra italiana e creò un ribaltamento nei rapporti di forza atipico per l’Europa occidentale, dove era più usuale la presenza di un Partito socialista egemone e di governo e di un Partito comunista subalterno ad esso. Gli analisti politici individuarono anche in questa anomalia “tutta italiana” una delle cause principali del blocco del sistema politico italiano, definito con i termini di “bipartitismo imperfetto” o “pluralismo polarizzato”, unico in Europa e nei paesi democratici a non essere caratterizzato da quel vitale meccanismo democratico che è l’alternanza[13]. Se da un lato, con la scissione, il Psli[14] di Saragat andò ad aggiungersi alla schiera dei piccoli partiti che gravitavano intorno alla Dc creando un blocco moderato molto coeso, dall’altro il Psi di Nenni rafforzò i già saldi rapporti con il Pci[15].

Il clima che portò alle elezioni del 18 aprile del 1948[16] fu quello di una vera e propria resa dei conti. Si fronteggiarono due idee contrapposte di società: le sinistre fecero leva sul sentimento di rivalsa degli operai e dei contadini, mentre la Dc, per accattivarsi anche i consensi di quelli che non erano i suoi elettori tradizionali, puntò tutto sull’anticomunismo e sui valori di democrazia e libertà[17]. La Dc, anche grazie all’aiuto politico della Chiesa, che mosse tutta la sua imponente struttura, e all’aiuto non solo economico degli Usa[18], uscì vincitrice da quello scontro epocale ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Democratico Popolare, che si presentò con un unico simbolo, recante l’effige di Garibaldi, restò molto al di sotto della somma dei voti riportati dal Pci e dal Psiup nel 1946. Il risultato, eccessivamente negativo del Fronte, è spiegabile oltre che per la nascita della lista di Saragat, anche per una “consuetudine” della politica italiana: l’accorpamento di più liste produce, molto spesso, meno voti rispetto alla somma delle stesse. La vittoria della Dc in quelle elezioni rappresentò un momento decisivo per la storia del Paese. L’Italia decise il 18 aprile 1948 di essere parte integrante del campo occidentale e il voto ebbe anche l’effetto di consolidare una democrazia basata sulla molteplicità di partiti, e che rifiutava, definitivamente e diversamente dai paesi dell’est Europa, l’opzione della democrazia socialista.


[1] I dati del tesseramento dimostrano che il Pci superò i due milioni di iscritti fino al 1956.
Nello specifico segnaliamo i dati.di tesseramento del Pci dal 1946 al 1956:
1946: 2.068.272 iscritti; 1947: 2.252.446 iscritti; 1948: 2.115.232 iscritti; 1949: 2.027.271 iscritti; 1950: 2.112.593 iscritti; 1951: 2.097.830 iscritti; 1952: 2.093.540 iscritti; 1953: 2.134.285 iscritti; 1954: 2.145.317 iscritti; 1955: 2.090.006 iscritti; 1956: 2.035.353 iscritti.
Cfr. dal web Istituto Cattaneo – Archivio Adele.
[2] In ordine d’importanza nel radicamento del Pci: Emilia Romagna, Toscana ed Umbria.
[3] Le elezioni per la Costituente furono tenute lo stesso giorno del Referendum che sancì con il 54% dei voti l’inizio dell’era repubblicana e la fine della Monarchia.
Risultati dei tre maggiori partiti alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946:
Pci 18,9% - Dc 35,2% - Psi 20,7%.
Il Pci ottenne 104 seggi nell’Assemblea Costituente.
[4] Cfr. Agosti “Storia del Pci”, Editori Laterza.
[5] Cfr. Pistillo “Pagine di storia del Partito Comunista Italiano”, Lacaita Editori.
[6] Cfr. Andreotti “Visti da vicino”, Rizzoli.
Giulio Andreotti racconta in un suo ritratto di Togliatti di avere ascoltato, durante un incontro politico che vedeva la partecipazione di tutti i partiti antifascisti, dalla viva voce del Segretario del Pci la frase “piccoli partiti, piccole idee”.
[7] Dal 1944 fu rifondata la Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro) con l’impegno unitario delle tre correnti principali: l’area comunista, quella socialista e quella cattolica. I Segretari nazionali della Cgil, dal dopoguerra alla fine del Pci, sono stati Di Vittorio (1944-1957), Novella (1957-1970), Lama (1970-1986), Pizzinato (1986-1988), Trentin (1988-1994)
[8] I Ministri del Pci nei Governi Bonomi, Parri e De Gasperi furono:
Togliatti, Scoccimarro, Gullo, Ferrari, Pesenti, Sereni.
Cfr. “Almanacco Pci 75” e “Almanacco Pci 76”, Sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[9] Cfr. Agosti op. cit.
[10] Una posizione del Pci, durante i lavori dell’Assemblea costituente, che creò frizioni anche con gli stessi socialisti fu quella di non opporsi a continuare a ritenere validi i Patti Lateranensi.
Cfr. Colarizi “Storia dei partiti nell’Italia repubblicana”, Editori Laterza.
[11] Cfr. Pistillo op. cit.
[12] La Conferenza diede vita ad un Ufficio informazioni (Cominform) che sostituì di fatto il Comintern.
Cfr. Agosti op. cit.
[13] Cfr. Galli “Storia del Pci”, Kaos edizioni, Galli “Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia”, il Mulino e Sartori “Teoria dei partiti e caso italiano”, Sugarco.
[14] In seguito il Psli mutò denominazione in Psdi.
[15] I rapporti tra il Pci ed il Psi erano molto stretti già da prima della Liberazione al punto che più volte era stata proposta la fusione tra i due partiti.
Cfr. Longo “Ipotesi di una fusione tra comunisti e socialisti” e “Per la creazione del partito unico della classe operaia e dei lavoratori” saggi tratti da “I comunisti e l’unità della classe operaia” a cura della sezione centrale Scuole di Partito del Pci.
[16] Risultati delle due maggiori liste alle elezioni per la Camera dei Deputati del 18 aprile 1948:
Fronte Democratico Popolare 31% - Dc 48,5%.
Il Fronte Democratico Popolare ottenne 187 seggi alla Camera e 72 al Senato.
[17] Cfr. Colarizi op. cit.
[18] L’aiuto degli Usa alla Dc si manifestò nelle forme più disparate che andavano dai messaggi radio alle lettere degli emigrati italiani in America. Cfr. Pistillo op. cit.

VI - L’opposizione negli anni del “centrismo”

Nel Pci la terribile sconfitta del 1948 non mise in discussione la leadership di Togliatti che rimase saldamente al timone del Partito coadiuvato dai vicesegretari Luigi Longo e Pietro Secchia. La struttura organizzativa marxista-leninista, emersa dopo il VI Congresso[1], agevolò la tenuta senza traumi del gruppo dirigente come anche dimostrarono i giorni successivi al 14 luglio 1948, quando lo stesso Togliatti rimase vittima di un attentato per opera di un giovane fanatico. Furono Longo e Secchia, almeno nel momento in cui Togliatti lottava tra la vita e la morte, a prendere in mano le redini del Partito e a bloccare i tentativi di insurrezione della base. Infatti erano ancora attive le “aree meglio organizzate” delle squadre partigiane, e queste possedevano ancora un discreto arsenale che aumentava continuamente anche perché in quei giorni, in molte città, venivano con facilità disarmate le Forze dell'ordine[2]. Quando fu fuori pericolo, lo stesso Togliatti, dal letto di ospedale, si affrettò a riportare l’ordine nel Partito con la storica frase in cui chiedeva alla base di “mantenere la calma”[3]. L’attentato non fu privo di conseguenze politiche: la Cgil di Di Vittorio, che aveva promulgato subito dopo l’attentato lo sciopero generale, per le polemiche successive a questa decisione, si divise e proprio questo divenne, inserito nelle mutate condizioni politiche, l’evento scatenante che provocò la scissione della corrente cattolica, che diede vita alla Libera Cgil, in seguito Cisl, e di quella socialdemocratica e repubblicana, che fondò la Uil[4].

Gli anni della prima Legislatura repubblicana non furono semplici per il Pci, sottoposto com’era, al fuoco incrociato di Governo e Chiesa. Il Governo, anche utilizzando mezzi come la “celere” di Scelba, praticò una sistematica repressione delle pur numerose iniziative di protesta nelle fabbriche e nelle campagne organizzate dal Pci e dalla Cgil. La Chiesa, che già aveva avuto un ruolo molto attivo nelle elezioni del 1948, proseguì con la propaganda contro il Pci e la Cgil[5] che culminò con la scomunica nei riguardi di coloro che si professavano comunisti o appoggiavano le liste socialcomuniste. L’unità con i socialisti, che continuava nella Cgil e nelle Amministrazioni rosse presenti soprattutto in Emilia, Toscana ed Umbria, l’organizzazione marxista-leninista, le lotte nelle fabbriche del centro-nord e soprattutto nelle campagne del Mezzogiorno, e una sempre maggiore penetrazione nella cultura e nella società italiana, che si palesarono ad esempio nelle lotte contro il nucleare, evitarono al Pci di cadere in un grave isolamento. Molto importanti per il Pci furono anche i movimenti per la pace, nati dopo l’inizio della guerra di Corea del 1950, che impegnarono tutto il Partito, con l’importante partecipazione della ricostituita Fgci[6], soprattutto dopo il VII Congresso nazionale che si tenne a Roma nell’aprile del 1951.

Dopo poco tempo il Partito riuscì ad uscire da questa posizione di difesa e ritornò a crescere ricominciando la sua fase di espansione testimoniata dall’avanzata alle elezioni amministrative del 1951 e 1952[7]. Ma i segnali più evidenti di ripresa si videro in seguito, soprattutto con le elezioni politiche del 1953. La Dc di De Gasperi, attuando non poche forzature, fece approvare una nuova Legge elettorale che concedeva, alla coalizione che superava il 50% dei voti, un cospicuo premio di maggioranza che permetteva di raggiungere il 65% dei seggi. Il timore della Dc di non ripetere l’exploit del 1948 era evidente e la reazione del Pci, coadiuvata alacremente dalla Cgil, che convocò un nuovo sciopero generale verso quella che fu ribattezzata “Legge truffa”, fu feroce. La coalizione centrista, per 57.000 voti, non raggiunse la maggioranza assoluta ed il mancato obiettivo insieme con il forte arretramento della Dc[8], segnò la fine dell’era De Gasperi. Il Pci, capitalizzando un quinquennio di lotte sociali e politiche[9], superò i sei milioni di voti, ma la soddisfazione per il duplice risultato conseguito, fallimento della Legge truffa e primato indiscusso nella sinistra italiana, con quasi 10 punti percentuali sul Psi, fu di breve durata, in quanto la Dc era ancora saldamente al governo del Paese e le sinistre nel complesso avevano ancora un ruolo politico marginale.

Anche i mutamenti sociali non sembravano andare in una direzione che avrebbe potuto portare giovamento al Pci. L’aumento della richiesta di manodopera spinse verso i centri urbani, verso nord e verso l’estero grosse masse di lavoratori, i quali, avendo da risolvere gravi problemi nell’immediato, erano poco interessati alle lotte ideali per il cambiamento della società[10]. Significativo, sotto questo punto di vista, fu la vittoria della Cisl, ai danni della Cgil, nelle elezioni per le commissioni interne della Fiat nel 1955. Per i comunisti del Partito e della Cgil quella fu un’importante occasione di riflessione. Di Vittorio pronunciò nel Direttivo della Cgil una famosa autocritica che fu destinata a mutare l’intera organizzazione della Cgil[11].

Nel tentativo di uscire da questa scomoda situazione, le sinistre, soprattutto il Psi, tentarono un avvicinamento all’area di governo e l’elezione a Presidente della Repubblica di Gronchi con il voto determinante delle sinistre nel 1955 e l’astensione del Pci e del Psi sul voto di fiducia al Governo Segni all’inizio del 1956[12], furono gli atti politici più importanti di questa strategia. Cambiamenti vi furono anche nell’organizzazione del Pci, in quanto la struttura marxista-leninista aveva reso palesi tutti i limiti che aveva nel cogliere a pieno tutti i cambiamenti economici e sociali del Paese. A farne le spese, tra i maggiori dirigenti, fu Secchia che perse l’incarico di vicesegretario. La classe dirigente fu gradualmente rinnovata, mentre il Partito abbandonò, almeno in parte, l’organizzazione marxista-leninista per riprendere, sempre di più, le forme di quel “partito nuovo” tanto caro a Togliatti.

Il 1956 fu un anno fondamentale nella storia del Pci. Con il XX Congresso del Partito comunista sovietico, la cui guida era passata, dopo la morte di Stalin nel 1953, nelle mani di Chruscev, fu messa duramente sotto accusa l’intera politica del più importante dittatore sovietico, e fu condannato l’uso del “culto della personalità”. Le reazioni del Pci, almeno in un primo momento, furono prudenti e si limitarono a porre l’accento sul carattere innovativo della svolta sovietica, sottolineando, in particolar modo, la giustezza delle originali scelte che il Pci aveva fatto negli anni precedenti[13]. Fu Togliatti, nei mesi successivi, con un’intervista al giornale “Nuovi argomenti”, ad imprimere una svolta nella posizione del Pci. Il “Migliore”[14], calcando la mano sull’eccessiva burocratizzazione dello Stato, denunciò senza mezzi termini le “degenerazioni” del sistema sovietico che avevano condotto al culto della personalità. Con quella presa di posizione Togliatti cominciò a mettere in discussione l’idea stessa di “modello sovietico”. Ma la strada che avrebbe dovuto portare ad una piena autonomia del Pci era ancora lunga e quando il governo comunista polacco represse con la forza le manifestazioni operaie, il gruppo dirigente del Pci si allineò alle posizioni del Partito sovietico.

Ancora più grave e colma di conseguenze fu la crisi in Ungheria. Nel paese già da qualche mese vi erano state vibranti proteste sul modello di quelle che erano avvenute in Polonia. Quando il Governo ungherese manifestò l’intenzione di uscire dal Patto di Varsavia si scatenò, violentissima, la repressione sovietica. I carri armati dell’Armata rossa invasero il paese e causarono diverse migliaia di morti. Anche in questo caso, sebbene in maniera ancora più sofferta, il Pci fu costretto ad allinearsi, ma il costo politico di quella decisione fu elevatissimo. Alcuni settori del Partito, e soprattutto il sindacato, presero le distanze dalle posizioni del Pci. Tra le posizioni critiche vanno ricordate sia quella di Di Vittorio che quella di oltre un centinaio di intellettuali interni o vicini al Partito che sottoscrissero un duro manifesto di condanna. Nonostante tutto, le critiche, per lo speciale rapporto che legava il Partito ai i suoi militanti[15], non portarono ad una immediata fuoriuscita della maggioranza di quei dirigenti che avevano manifestato perplessità. Ma in tutta Italia la situazione per il Pci divenne difficilissima e si scatenò un clima di anticomunismo senza precedenti, anche a causa della posizione contraria all’intervento sovietico espressa dai socialisti. Il Pci si trovò, forse per la prima volta, del tutto isolato e la crisi di quell’anno, oltre ai cambiamenti sociali che caratterizzarono il boom economico, fu la causa principale dell’imponente crollo delle iscrizioni. Il Pci perse oltre 200.000 tesserati e da quel momento non raggiunse più i 2.000.000 iscritti[16].

Questa crisi dimostrò, però, la forza del Pci che, nonostante tutto, riuscì a reggere i duri attacchi[17]. L’VIII Congresso del Pci, svoltosi nel dicembre del 1956, non sembrò affatto quello di un partito sotto scacco, ma fu ricco di analisi e di proposte, significativamente preceduto da imponenti dibattiti che avevano pervaso nei mesi precedenti le sezioni e le federazioni. Il Partito rilanciò in quella assise la propria autonomia e prospettò, per la prima volta in maniera ufficiale, il superamento della concezione del “partito guida” e una “via italiana al Socialismo”. Le intuizioni del passato di Gramsci e di Togliatti, a cominciare dalle posizioni sulla democrazia italiana, furono portate avanti con maggiore convinzione. La “democrazia di tipo nuovo”, intesa come una fase transitoria che avrebbe dovuto portare in un secondo momento al Socialismo, il rinnovamento della classe dirigente del Partito, già iniziato dal 1954, e l’autonomia del sindacato furono le parole d’ordine di quello che sarebbe stato uno dei più importanti congressi della storia del Pci[18].

La principale conseguenza politica degli avvenimenti del 1956 fu il definitivo tramonto del Patto d’unità d’azione tra il Pci e il Psi. Il Psi di Nenni, che negli anni precedenti aveva profondamente subito il fascino dell’Unione Sovietica di Stalin[19], ripensò, prendendone completamente le distanze, la sua posizione riguardo al più importante Stato socialista. Contemporaneamente il Psi operò un avvicinamento, e questa volta solitario, all’area di governo e alla Dc e al Psdi soprattutto, che sembrò essere ricambiato da una politica dei partiti governativi sempre più vicina “all’apertura a sinistra”[20].

Nonostante le avanzate della Dc e del Psi, le elezioni politiche del 1958[21] costituirono per il Pci un’inaspettata e sostanziale tenuta, in quanto il Partito confermò il risultato delle precedenti elezioni. Il soddisfacente risultato elettorale non illuse il gruppo dirigente del Pci conscio sia di avere alle spalle il periodo più difficile, sia dell’impellenza di necessari cambiamenti nel Partito. Ma tutto quello che era successo nel 1956 e il miracolo economico erano stati compresi, rispetto alla classe dirigente del Partito, sicuramente meglio dal Segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio[22], il quale si era già confrontato, prima degli altri, con il problema del rapporto con l’Urss e con i nuovi bisogni dei lavoratori. Il sindacalista di Cerignola morì il 3 novembre del 1957, mentre era a Lecco per una manifestazione, ma la sua politica venne immediatamente ripresa nel Partito, soprattutto ad opera di Giorgio Amendola.

Dopo le elezioni del 1958 si fece avanti, sempre di più, la possibilità di un’entrata al governo dei socialisti, eventualità che non incontrava, almeno in quei mesi, un’accesa opposizione del Pci, che addirittura, nel suo IX Congresso, tenutosi nei primi mesi del 1960, manifestò la disponibilità di appoggiare un governo di “centro-sinistra”. Nel Congresso furono esplicitate anche le condizioni politiche che avrebbero subordinato l’appoggio del Pci ed esse consistevano nelle richieste di una politica estera meno “filoamericana” e di una politica interna di riforme sociali e democratiche[23]. All’inizio del 1960, la nuova maggioranza dell Dc, di matrice dorotea, che aveva scalzato la vecchia maggioranza fanfaniana, come nel suo classico “modus operandi”[24], temporeggiava e teneva sulla corda il Psi per una sua entrata al governo. Fu in questa complessa fase politica che avvenne la crisi del Governo Segni. Il Presidente della Repubblica Gronchi affidò l’incarico di formare un nuovo governo a Fernando Tambroni, della sinistra democristiana, che ottenne la fiducia con il voto determinante del Msi. L’Italia antifascista insorse, in tutta la Penisola si diffusero manifestazioni spontanee e gli scontri maggiori avvennero a Genova, città Medaglia d’oro della Resistenza, dove, nel luglio del 1960, era in programma il Congresso del Msi. La veemenza delle proteste, che andarono addirittura oltre rispetto alle previsioni dello stesso Pci, spinsero alle dimissioni Tambroni e aprirono le porte “all’apertura a sinistra” e al “centro-sinistra”[25].


[1] Cfr. Agosti op. cit.
[2] Cfr. Colarizi op. cit.
[3] Cfr. Cossutta “Una storia comunista”, Rizzoli.
[4] Cfr. Pistillo op. cit.
[5] La Cgil veniva descritta dalla Civiltà Cattolica come un’organizzazione che lavorava per “minare alla base la consistenza economica del paese e la sua ripresa”, e la sua azione “disgregatrice e sovvertitrice” era subordinata “ai particolari fini della lotta politica di un partito asservito a una centrale straniera”. Cf. Pistillo op. cit.
[6] “Dopo la liberazione la ricostruzione della Fgci fu decisa dal Comitato Centrale del PCI nel marzo del 1949. Enrico Berlinguer ne divenne il Segretario, carica che avrebbe mantenuto sino al 1956. Berlinguer diede un grande impulso alla Federazione giovanile, che in quegli anni arrivò a contare 450.000 iscritti, e la proiettò con un ruolo di primo piano nel movimento comunista internazionale divenendo nel 1950 Segretario della Federazione Mondiale della Gioventù democratica. Molte furono le iniziative e le campagne portate avanti tra i giovani italiani e capillare era l’insediamento dell’organizzazione nelle fabbriche, nelle scuole e nelle università.
… Nei primi anni cinquanta fu promosso, ad esempio, il cosiddetto Movimento dei costruttori, che aveva il compito di stimolare la militanza all’interno dell’organizzazione e venne inaugurato il grande movimento delle bandiere della pace, durante l’escalation della guerra fredda. Enrico Berlinguer nel 1951, anno del 30° anniversario della fondazione della Fgci, disse che la storia della Federazione giovanile “è stata la storia della gioventù italiana, della sua parte più cosciente ed attiva socialmente”.
… All’inizio degli anni ’60 cominciò a palesarsi il duplice problema del comunque sempre difficile rapporto con i giovani ed il legame con il Partito. In quegli anni, infatti, gli iscritti arrivano a 200.000 e la Federazione accentua i suoi tentativi di ricerca di un profilo autonomo.
Tra il 1961 e il 1966 Achille Occhetto fu il Segretario della Fgci.
Con l’esplosione del movimento del ’68 la Fgci attraversò una fase assai complicata e fu Renzo Imbeni, che della Fgci fu Segretario dal 1972 al 1975, a rilanciare l’azione della Federazione.
A Massimo D’Alema, Segretario della Fgci dal 1975 al 1980, spettò, invece, il difficile compito di affrontare la fase del movimento del 1977 e gli anni cupi della deriva del terrorismo.
Negli anni ’80 la Fgci fu guidata da Marco Fumagalli (dal 1980 al 1985) e da Pietro Folena (dal 1985 al 1989).
L'ultimo Segretario della Fgci, trasformatasi con la nascita del Pds in Sinistra Giovanile, fu Gianni Cuperlo. Cfr. Numero unico istituzionale di presentazione della storia della Fgci a cura della Direzione nazionale Fgci del P.d.c.i. .
[7] Cfr. Colarizi op. cit.
[8] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 7 giugno 1953:
Pci 22,6% - Dc 40,1% - Psi 12,7%.
Il Pci ottenne 148 seggi alla Camera e 54 al Senato.
[9] Cfr. Pistillo op cit.
[10] Cfr. Agosti op. cit.
[11] Cfr. “1906-2006 La Cgil e i tuoi diritti”, Numero unico per il centenario della Cgil.
[12] Aldo Agosti op.cit.
[13] Cfr. Aldo Agosti op. cit.
[14] Togliatti era definito il “Migliore” per un diffuso apprezzamento delle sue doti politiche. Il soprannome fu usato anche dagli avversari politici, ovviamente con un senso dispregiativo. Cfr. Cossutta op. cit.
[15] Il Partito era come una Chiesa e la disciplina del militante una fede. Giuseppe Di Vittorio, ad esempio, fu costretto a fare autocritica sulla posizione assunta relativamente ai fatti di Ungheria.
Cfr. Simona Colarizi op.cit.
[16] Dati del tesseramento del Pci dal 1957 al 1968:
1957: 1.825.342 iscritti; 1958: 1.818.606 iscritti; 1959: 1.789.269 iscritti; 1960: 1.792.974 iscritti; 1961: 1.728.620 iscritti; 1962: 1.630.550 iscritti; 1963: 1.615.571 iscritti; 1964: 1.641.214 iscritti; 1965: 1.615.296 iscritti; 1966: 1.575.935 iscritti; 1967: 1.534.705 iscritti; 1968: 1.502.862 iscritti. Fonte citata.
[17] Cfr. Agosti op. cit.
[18] Cfr “Almanacco Pci ‘75” a cura della Sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[19] Cfr. Andreotti op. cit.
[20] Cfr. Colarizi op. cit.
[21] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 25 maggio 1958:
Pci 22,7% - Dc 42,3% - Psi 14,2%.
Il Pci ottenne 149 seggi alla Camera e 59 al Senato.
[22] Cfr. “1906-2006 La Cgil e i tuoi diritti”, Numero unico per il centenario della Cgil.
[23] Cfr. “IX Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni”, Editori Riuniti.
[24] Cfr. Chiarante, “La Democrazia cristiana”, Editori riuniti.
[25] Cfr. Colarizi op. cit.

VII - Il centro-sinistra

Con il boom economico del paese diventavano necessarie nuove politiche volte alla ridistribuzione delle ricchezze in maniera tale che anche la classe lavoratrice, migliorando il proprio tenore di vita, potesse “consumare” i prodotti italiani. Il coinvolgimento di almeno una parte della rappresentanza politica della classe operaia a queste nuove scelte divenne allora un elemento ineludibile ed il Psi, dal 1956, aveva iniziato, allontanandosi dal Pci, ad avvicinarsi alla Dc.

La nuova svolta nella politica italiana fu il frutto del lavoro dello statista pugliese Aldo Moro che, con accelerazioni improvvise e con brusche frenate, segnò i tempi dell’operazione d’avvicinamento, con il Governo Fanfani detto anche “delle convergenze parallele”, e dell’entrata dei socialisti di Nenni, con i suoi tre Governi dal 1963 al 1968. Il Pci, nella sua maggioranza[1], pur essendo consapevole che il centro-sinistra avrebbe messo fine all’unità delle forze operaie, individuò nel nuovo quadro politico un più avanzato terreno di lotta e questa posizione fu rafforzata dal X Congresso del Pci che, svoltosi nel dicembre del 1962, oltre a sostenere con forza l’istituzione del nuovo Ente Regione e l’allargamento dei poteri delle autonomie locali in genere, si soffermò a lungo sulle potenzialità della nuova fase politica. L’obiettivo principale che il Pci di Togliatti chiedeva al centro-sinistra sarebbe dovuto essere l’attuazione della Costituzione[2].

La linea politica del Pci di questi anni verso il Governo si poteva riassumere in una opposizione “morbida” in Parlamento, ma che ritornava ad essere dura nelle piazze e nel Paese[3]. Questa posizione portò indubbi benefici al Pci e le elezioni del 1963[4] videro una consistente avanzata dei comunisti. Il brillante risultato, conseguito nonostante il costante calo degli iscritti degli ultimi anni, dimostrò che il Pci aveva cominciato a mietere consensi anche oltre il proprio tradizionale elettorato e che aveva sfruttato al meglio i nuovi spazi politici che si erano creati con l’entrata del Psi al Governo. Il Pci cominciava con queste elezioni, facendo breccia anche nel cosiddetto elettorato d’opinione, quell’ascesa che di lì a pochi anni avrebbe portato il Partito a diminuire costantemente la distanza dalla Dc fino alla possibilità, verificatasi solo nelle elezioni europee del 1984, di realizzare il tanto atteso “sorpasso”. Oltre ad un leggero calo dei socialisti, va ricordato, di quella tornata elettorale, il grosso spostamento di voti dalla Dc al Pli, che guadagnò il 3,5% dei voti rispetto al 1958, raggiungendo il 7%. Una consistente fetta di elettorato non aveva gradito lo spostamento a sinistra della Dc e si era spostata sui più tranquillizzanti, e più conservatori, lidi liberali.

Negli anni successivi fu più chiaro lo scopo di Aldo Moro che era quello di mantenere intatta la “centralità” democristiana e si può affermare che almeno quell’obiettivo fu ottenuto se si considerano i contenuti programmatici, non propriamente riformatori, dei governi e le difficoltà a cui andò incontro il Psi in quegli anni, schiacciato tra Dc e Pci, nel giustificare il proprio ruolo nel Governo[5]. Il Pci, temendo che una buona riuscita del centro-sinistra potesse rafforzare la “conventio ad escludendum” nei suoi confronti, si tranquillizzò nel momento in cui prese atto delle difficoltà dei Governi Moro[6] e riprese le proprie manovre attaccando continuamente il Psi e lavorando per spingere la sinistra dello stesso partito verso la scissione.

Il 21 agosto del 1964 morì a Yalta Palmiro Togliatti. I suoi funerali, che videro la partecipazione di oltre un milione di persone, costituirono il più imponente momento di partecipazione popolare che la giovane Repubblica italiana aveva conosciuto fino a quel momento. L’ultimo documento di Togliatti, che costituiva il testamento politico del Migliore e che fu ricordato come il “memoriale di Yalta”, ribadiva l'originalità e la diversità di vie che avrebbero consentito la costruzione di società socialiste, “unità nella diversità” del movimento comunista internazionale.

Il Pci lasciato da Togliatti era un Partito che, pur continuando a rimanere ancorato al “centralismo democratico”, cominciava a sentire l’esigenza di rendere visibili quelle che, al suo interno, erano le diverse sensibilità e opzioni politiche. Il primo Congresso dopo la morte del Migliore, l’XI svoltosi nel gennaio del 1966, fu il teatro del primo scontro svoltosi “alla luce del sole” dalla nascita del Partito nuovo. Le due linee politiche che si fronteggiarono furono quella di “destra” di Amendola, che chiedeva l’unità con i socialisti e un’urgente riforma delle Istituzioni dello Stato nella direzione di una maggiore partecipazione democratica, e quella di “sinistra” di Ingrao, che vedeva nell’organizzazione di massa la migliore risposta alla nuova conflittualità operaia riemersa in quegli anni. Amendola, sebbene da solo non avesse la maggioranza assoluta, mandò Ingrao in minoranza. Il voto contrario di Ingrao, per l’autorevolezza dell’esponente comunista che godeva di numerosi consensi sia all’interno che all’esterno del Partito, sancì, per la prima volta, la legittimità al dissenso politico.

Il lavoro di sintesi, rivolto al “rinnovamento nella continuità”, tra le diverse anime del Partito suggellò la leadership di Luigi Longo, eletto Segretario generale dopo la morte di Togliatti e degno continuatore delle politiche del defunto leader. Nel ruolo di successore di Togliatti i due candidati più forti erano proprio Amendola ed Ingrao, ma Longo, per le garanzie di unità e continuità che dava la sua figura, che aveva ricoperto con Togliatti la carica di vicesegretario e aveva sempre con lealtà ed efficacia coadiuvato il Segretario, costituiva la soluzione migliore per la segreteria del Partito[7]. Come ha giustamente ricordato Armando Cossutta “se Togliatti fu il grande protagonista della linea politica e della strategia dei comunisti, Longo ne fu l’intelligente costruttore”[8]. Sin da allora al giovane Enrico Berlinguer fu affidato il compito di affiancare Longo. Fu evidente a tutti che il Partito, con quella mossa, aveva già scelto il suo futuro leader[9]. Ma d'altro canto nonostante il caso di Ingrao può essere considerato di indubbia valenza politica e storica, gli avvenimenti degli anni successivi, in primis la vicenda del gruppo del “Manifesto”, dimostrarono che la strada che avrebbe dovuto condurre il Pci al superamento del metodo del “centralismo democratico” era ancora tutta da percorrere.

Le elezioni del 1968[10] mostrarono chiaramente che i principali sconfitti nei Governi di centro-sinistra furono i socialisti. Per dare maggiore forza all’area di sinistra che si trovava al governo del Paese e per isolare definitivamente il Pci, il Psi e il Psdi avevano formato il Psu (Partito socialista unificato). Il nuovo partito, che si poneva gli ambiziosi obiettivi di competere con i comunisti per l’egemonia della sinistra da un lato e di creare le condizioni per “l’alternativa alla Dc” dall’altro, fu sonoramente sconfitto nella tornata elettorale del maggio di uno degli anni “più caldi” della storia italiana. Il Psu ottenne, anche a causa della scissione dell’ala sinistra del Psi che formò il Psiup[11], molto meno della somma di quello che i due partiti che lo componevano avevano riportato alle precedenti elezioni e la debacle portò al tramonto dell’opzione “terzista” e , di li a poco, ad una nuova scissione tra il Psi ed il Psdi. D’altro canto la Dc recuperò, probabilmente alla sua destra, lo 0,8%, mentre i veri vincitori furono i comunisti, i quali trassero i maggiori vantaggi dalle mancate risposte del centro-sinistra e proseguirono lentamente, scacciando tutte le ventilate ipotesi di crisi, nella loro ascesa.


[1] L’esponente del Pci che si è battuto maggiormente per l’approvazione di questa linea fu Amendola, che riuscì a convincere anche Togliatti. Cfr. Rossanda “La ragazza del secolo scorso”, Einuadi.
[2] Cfr. Agosti op. cit.
[3] Cfr. Colarizi op. cit.
[4] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 28 aprile 1963:
Pci 25,3% - Dc 38,3% - Psi 13,8%.
Il Pci ottenne 175 seggi alla Camera e 85 al Senato.
[5] Cfr. Rossanda op. cit.
[6] Aldo Moro, considerato unanimemente tra i migliori politici italiani, non fu parimenti grande come uomo di governo. Le sue eterne mediazioni, che avevano ottenuto numerosi e indiscutibili successi nella politica, si scontravano con la necessità della decisione immediata tipica invece di chi si trova ad occupare un ruolo di governo. Cfr. Pietra “Moro fu vera gloria?”, Garzanti, cfr. Andreotti op. cit., cfr. Colarizi op. cit.
[7] Cfr. Rossanda op. cit.
[8] Cossutta, op. cit.
[9] Affiancare Longo nella direzione del Partito rappresentò per Berlinguer un’occasione di maturazione prima di andare a ricoprire l’incarico più prestigioso. Il peso di Berlinguer inoltre ebbe occasione di crescere sempre di più negli anni successivi anche a causa della malattia che negli ultimi tempi di segreteria impediva a Longo una piena attività politica.
[10] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 19 maggio 1968:
Pci 26,9% - Dc 39,1% - Psu 14,5%.
Il Pci ottenne 177 seggi alla Camera e 101 al Senato (con il Psiup).
[11] La parte maggioritaria del Psiup confluì nel 1972 nel Pci. Delle sue due minoranze interne la più grande formò il Pdup e la più piccola rientrò nel Psi.

VIII - Il ’68 e il superamento del centro-sinistra

Nonostante il Pci continuasse, dopo le elezioni del 1968, ad essere escluso dall’area di governo, il Partito dimostrava di essere cresciuto e non solo dal punto di vista elettorale. Importante, nel processo di maturazione del Pci, volto all’assunzione di una nuova mentalità “di governo” e alla piena emancipazione dall’Urss, fu la posizione di simpatia e di vicinanza verso l’esperienza cecoslovacca della “primavera di Praga” e verso il leader dei comunisti cecoslovacchi Dubcek, che fu il vero protagonista del movimento di rinnovamento. A differenza di quanto era avvenuto nel 1956 in Ungheria, l’uso della forza dell’Unione Sovietica fu duramente condannato dal Pci, che con questo atto iniziò concretamente il suo distacco dal potente e ormai ingombrante alleato[1].

Il cammino, però, che avrebbe portato all’effettiva autonomia del Pci era ancora lungo ed il Partito circoscrisse il dissenso dall’Urss alla questione della Cecoslovacchia. Questa eccessiva prudenza nell’accelerare il distacco dall’Urss e l’accusa di incapacità di gestire e dare risposte, nonostante il personale impegno di Longo, a quelli che furono i movimenti degli studenti e degli operai del 1968-69 portarono all’opposizione, all’interno del Partito, del gruppo del “Manifesto” di Pintor, Rossanda, Magri, Castellina e Parlato, esponenti politici che erano stati molto vicini alle posizioni di Ingrao[2]. La radiazione dell’intero gruppo del 1969, anche se avvenuta dopo un notevole dibattito tra gli organismi dirigenti, mise in luce le carenze nella democrazia interna del Pci e l’incapacità del Partito, nonostante il precedente, pur differente, di Ingrao[3], di tollerare al suo interno posizioni nette di dissenso.

L’avvenimento che più d’ogni altro ci permette di ricordare il 1968 fu senza dubbio quell’incredibile movimento volto alla liberalizzazione dei costumi e al superamento della società che, partendo dalle Università, coinvolse, travolgendolo, l’intero Paese, e che prese appunto il nome di “movimento del sessantotto”. Il Pci fu colto di sorpresa da questa incredibile ondata e le reazioni di alcuni dirigenti furono quasi di fastidio nei confronti di un movimento giovanile estremamente ideologizzato che aveva la chiara intenzione di non prendere ordini da nessuno[4]. In quel movimento si cominciavano ad esplorare altre vie e si facevano avanti con forza i nuovi modelli della Cina di Mao e della Cuba di Fidel Castro e Che Guevara. Il Pci era ancora un referente importante e, dopo un iniziale sbandamento, il Partito, a differenza di quando sarebbe capitato qualche anno dopo, riuscì a mantenere aperto un dialogo con la nuova generazione che si ribellava[5]. Il protagonismo giovanile, al quale si aggiunse, in stretta relazione con esso, un nuovo protagonismo operaio[6], metteva oggettivamente in difficoltà un partito che non aveva mai creduto alla possibilità che, spontaneamente e autonomamente, ampi settori della società potessero ribellarsi e progettare un mondo migliore.

Nel XII Congresso del PCI, quello che elesse vicesegretario generale Enrico Berlinguer preparando di fatto la successione a Luigi Longo e che si tenne nel febbraio del 1969, fu ridefinita, alla luce del recente movimento, la via italiana al Socialismo attraverso una strategia delle riforme e fu precisato l'obiettivo politico di “un governo orientato a sinistra”, aperto verso le spinte nuove della società[7].

Il Pci, essendo opposizione politica in Parlamento, spinto dalla necessità di non perdere il contatto con l’opposizione sociale, riuscì senza dubbio ad incanalare almeno una parte del movimento, ottenendo ovviamente risultati migliori nelle fabbriche tra gli operai, anche grazie alla nascita dell’unità sindacale tra Cgil, Cisl e Uil, che tra gli studenti, alla maggioranza dei quali l’attenzione con la quale il Pci cercava di salvaguardare l’organizzazione democratica del Paese non piacque molto e sembrò essere “oppressiva”[8]. Il Pci non riuscì ad impedire, per la prima volta, la nascita alla sua sinistra di un’area politica “extraparlamentare”, sbocco altro di quella parte di movimento che non si lasciò conquistare dal riformismo democratico del maggiore partito della sinistra. Questa frattura, che all’inizio non sembrò molto grave, in quanto minoritaria, finì per acuirsi negli anni successivi, con conseguenze che oltrepassarono le previsioni[9].

Il Pci, come dimostrarono i risultati elettorali e politici degli anni successivi, trasse sicuramente benefici dal “sessantotto” nel medio e lungo periodo, ma nel breve periodo i rapporti di forza politici con gli altri partiti di governo non mutarono[10]. Inoltre si manifestarono, in maniera oscura, spinte conservatrici che si contrapponevano al cambiamento e proprio in questo contesto che vi fu la terribile strage di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969. Il caso, che a distanza di anni mantiene inalterate le sue ombre, fu utilizzato dai settori più conservatori della Dc e della maggioranza di governo, che, con la “teoria degli opposti estremismi”, provavano a mettere in guardia l’opinione pubblica “benpensante” da quelli che ritenevano essere pericolosi cambiamenti politici[11]. L’elezione a Presidente della Repubblica del democristiano Leone nel 1971, votato anche dalle destre, e la nascita di un Governo Andreotti che escludeva anche il Psi dalla maggioranza, dimostrarono che i rapporti di forze all’interno delle Istituzione democratiche non volgevano a favore delle sinistre.

Il centro-sinistra intanto aveva fatto il suo tempo e la crisi definitiva della formula politica coniata da Aldo Moro portò nel 1972, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, alle elezioni politiche anticipate. I risultati delle elezioni del 1972[12] videro una sostanziale tenuta della Dc e del Pci, il consolidarsi del declino del Psi e una consistente avanzata del Msi-Destra Nazionale[13] che salì all’8,7%.Le elezioni del 1972, come anche le prime elezioni regionali del 7 giugno 1970, nelle quali il Pci aveva ottenuto, nelle 15 regioni a Statuto Ordinario, il 27%, contro il 38% della Dc, ed aveva guadagnato il governo di Emilia Romagna, Toscana ed Umbria, dimostrarono che i risultati dell’ondata del “sessantotto” non si erano ancora manifestati, mentre fu chiaramente visibile la risposta conservatrice.


[1] Cfr. Agosti “Storia del Partito Comunista Italiano 1921 – 1991”, Editori Laterza.
[2] Cfr. Rossanda “La ragazza del secolo scorso”, Einaudi.
[3] Cfr. Rossanda op. cit.
[4] Cfr. Rossanda op. cit.
[5] Cfr. Agosti op. cit.
[6] La stretta relazione con il movimento studentesco ha portato qualcuno a parlare di esistenza per il movimento operaio di “un caso italiano”. Cfr. Grisoni e Portelli “Le lotte operaie in Italia dal 1960 al 1976”, Biblioteca Universale Rizzoli.
[7] Cfr. “Almanacco Pci ‘75” a cura della sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[8] Cfr. Agosti op. cit.
[9] Cfr. Zavoli “La notte della Repubblica”, L’Unità.
[10] Cfr. Colarizi “Storia dei partiti nell’Italia repubblicana”, Editori Laterza.
[11] Cfr. AA.VV. “L’Italia della P2”, Arnoldo Mondatori Editore.
[12] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 7 maggio 1972:
Pci 27,1% - Dc 38,7% - Psi 9,6%.
Il Pci ottenne 188 seggi alla Camera e 94 al Senato (con il Psiup).
[13] Lista costituita da Msi e Monarchici.

IX - La grande avanzata e la solidarietà nazionale

Con l’avanzata delle forze conservatrici, il Pci aveva l’impellente necessità di uscire da una situazione di immobilismo e la prima risposta fu data durante il XIII Congresso del Partito, del marzo del 1972, dal neo segretario generale Enrico Berlinguer che, nella sua relazione introduttiva, propose un “governo di svolta democratica” che vedesse la collaborazione delle tre principali correnti popolari: comunista, socialista e cattolica[1]. In quel contesto l’unità delle sinistre era una “condizione necessaria, ma non sufficiente”.

Una nuova svolta avvenne nel 1973 all’indomani del colpo di Stato in Cile di Pinochet ai danni del Governo di sinistra di Allende. Berlinguer, temendo che anche n Italia ci potessero essere pericoli per la democrazia, rilanciò, con un intervento su Rinascita, la linea di un “compromesso storico”, alleanza in difesa delle Istituzioni democratiche dei tre partiti popolari[2]. Berlinguer vedeva la Democrazia Cristiana non come un partito monolitico e conservatore, ma come una forza in costante evoluzione, al cui interno erano presenti, oltre alle forze reazionarie, importanti elementi popolari che potevano, e dovevano, essere convinti a collaborare con il Pci. Negli anni successivi il leader del Pci continuò a portare avanti questa linea politica ampliandola ed arrivando a proporre un’alleanza con la Dc non più soltanto difensiva, ma anche di programma e che si ponesse ambiziosi ed avanzati obiettivi, al punto di ipotizzare una maggioranza di governo, che saldando il solidarismo cattolico con le lotte dei comunisti, potesse puntare al superamento del sistema con l’inserimento graduale di elementi di socialismo[3].

I primi frutti della stagione del “sessantotto” si videro nel 1974 con il referendum per l’abrogazione della Legge sul divorzio, approvata nel 1970. Il segretario democristiano Fanfani schiacciò il proprio partito su posizioni oltranziste e volle a tutti i costi un referendum che il Pci, pronto anche a concessioni, avrebbe voluto evitare[4]. Ma quando il referendum fu ufficialmente indetto il Pci ruppe gli indugi e si schierò, con tutta la sua forza organizzativa per il “No” e i risultati furono sorprendenti. Il “No” stravinse raggiungendo il 60% dei voti dimostrando quanto effettivamente la società italiana fosse cambiata negli anni successivi al 1968. Le tante persone, anche non iscritte ai partiti, che si mobilitarono per il “No” al referendum dimostrarono inoltre una voglia di partecipazione che non poteva essere sottovalutata. Il Pci stesso in questi anni aumentò costantemente i propri iscritti[5], ridiventando, nel 1976, il primo partito per numero di iscrizioni, dopo 13 anni in cui il primato era stato della Dc.

Il fatto che il Paese si fosse spostato “a sinistra” emerse in maniera chiara ed inequivocabile alle elezioni amministrative del 1975. Prima di quelle elezioni il Pci amministrava solo le tre regioni rosse e pochissime altre province e comuni capoluogo al di fuori dell’Emilia, della Toscana e dell’Umbria[6]. Dopo il big bang del 15 giugno 1975, il Pci, con il Psi e in qualche caso anche con il Psdi e Pri, si trovò in maggioranza in sei regioni, aggiungendo ai governi nelle tre solite regioni rosse il Piemonte, la Liguria e il Lazio[7], nella metà delle province[8], nel 40% dei comuni capoluogo[9], in un terzo di tutti i comuni italiani e in quasi tutte le maggiori città[10]. In percentuale il Pci superò per la prima volta il 30 per cento raggiungendo il 33,4% contro il 35,2% della Dc e per le elezioni successive si faceva realistica l’ipotesi del sorpasso.

Gli organismi dirigenti del Partito, eletti nel marzo del 1975 nel XIV Congresso, “si svuotarono” e moltissimi quadri andarono a ricoprire incarichi istituzionali nelle amministrazioni locali[11]. Il Partito in tutta Italia si dovette confrontare a questo punto con i problemi di governo e di attuazione dei programmi, in regioni, province e città nelle quali, non essendo mai state amministrate dalle sinistre, erano presenti delle aspettative di cambiamento, sia nei cittadini che negli iscritti o militanti, che si erano accresciute nei tanti anni di opposizione del Pci[12]. Nel Congresso, Berlinguer, oltre ad abbandonare l’idea dell’uscita dalla Nato dell’Italia, aveva rilanciato la strategia del “compromesso storico”[13] e ne aveva allargato gli orizzonti da prospettiva per un nuovo a governo a trasformazione democratica della società. In quell’assise Berlinguer, considerato il malcostume che dilagava all’interno dei partiti, pose con forza anche la cosiddetta “questione morale” che si basava sul recupero di “senso dello Stato” da parte dei partiti e degli attori della politica[14].

Alle elezioni politiche del 20 giugno 1976[15] si arrivò con la consapevolezza che il primato democristiano era per la prima volta in discussione e si riaffacciò nell’elettorato moderato la “paura del sorpasso comunista” che ottenne il risultato di far confluire sulle liste Dc tutti i consensi moderati e di svuotare le liste minori a cominciare dal Pli, che in quella competizione elettorale scese sotto al 2%. La Dc mantenne la maggioranza relativa, mentre il Pci, pur raggiungendo il suo massimo storico con il 34,4%, non riuscì a mettere in pericolo la supremazia democristiana. Ma la polarizzazione dell’elettorato sui due maggiori partiti, che insieme raggiungevano quasi i tre quarti dei voti, rendeva necessaria una collaborazione al governo tra Dc e Pci. Un primo atto ufficiale dell’avvicinamento tra la Dc ed il Pci avvenne con l’elezione di Ingrao a Presidente della Camera[16].

Pur con le diffidenze degli Usa, la Dc ed il Pci, con l’instancabile lavoro dei loro leader Aldo Moro, che pur non essendo il segretario della Dc nei fatti ne condizionava profondamente la linea[17], ed Enrico Berlinguer trovarono un accordo per la formazione di un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti che vedeva l’astensione del Pci. Il risultato conseguito, che pure non accontentava in pieno il Pci[18], fece si che il Partito di Berlinguer, rompendo la pregiudiziale anticomunista, rientrasse nell’area di governo dopo un’attesa durata quasi trenta anni.

Ovviamente il Pci sperava che quello fosse solo il primo passo per un’assunzione di responsabilità più ampia, ma dall’altra parte dava frutti ben maggiori la strategia della Dc, che aveva lo scopo di logorare il Partito comunista, di frenare sull’entrata vera e propria del Pci al governo. Il Pci, pur ottenendo qualche piccolo risultato dal Governo nonostante l’aggravarsi della situazione economica causata dall’inflazione, si trovò nella scomoda situazione di avere responsabilità senza avere potere effettivo, mentre si facevano sempre più forti le pressioni della base[19].

I veri problemi, infatti, il Pci li ebbe alla sua sinistra dove la frattura con l’area extraparlamentare, che era stata latente fino a quel momento, era divenuta molto più profonda. Il movimento popolare del 1977, egemonizzato dall’area della “Autonomia Operaia”[20], assunse toni molto radicali di critica nei confronti della linea politica del Pci, che dal suo canto, sempre di più, sembrava accettare quella politica “dei due tempi”, che subordinava le riforme al risanamento, e che era stata contestata ai socialisti all’epoca del centrosinistra. La protesta fu contrassegnata anche da gesti clamorosi, come la cacciata di Lama, segretario generale della Cgil, dall’Università di Roma nel febbraio del 1977[21], e soprattutto da una violenza diffusa caratterizzata da importanti scontri che vedevano contrapporsi manifestanti e Forze dell’ordine.

La nascita e la successiva crescita dei gruppi terroristici “rossi” complicarono ulteriormente la situazione del Pci, che si vide stretto tra le difficoltà di spingere nei confronti della Dc per ottenere risposte “più avanzate” dal Governo e la necessità di dovere assumere un ruolo di responsabilità che isolasse i terroristi. Quando il Pci riuscì ad ottenere dalla Dc qualcosa di più concreto, ovvero l’accordo che avrebbe riconosciuto l’entrata del Partito nella maggioranza di governo, il più importante gruppo terroristico, le Brigate Rosse, misero a segno il più grave attentato terroristico della storia dell’Italia repubblicana: il rapimento di Aldo Moro[22].

Il 16 marzo del 1978 si discuteva in Parlamento la fiducia al nuovo Governo Andreotti, definito di “solidarietà nazionale”, che sanciva il nuovo accordo tra Dc e Pci. Le BR rapirono, con una sanguinosa strage, il leader democristiano, massimo fautore del nuovo accordo politico, e, al termine di lunghe trattative che divisero l’Italia e i partiti politici, lo uccisero. Il Pci si trovò ad essere costretto a mantenere la fiducia ad un governo che non manteneva nessuna delle promesse di cambiamento e che al quale, in una qualsiasi altra situazione, si sarebbe sicuramente opposto.

Il Pci riuscì a disimpegnarsi dal governo solo nel gennaio del 1979 e pagò a caro prezzo il ritardo, sicuramente non voluto, con il quale maturò questa posizione[23]. Il XV Congresso del Pci dell’aprile 1979 provò a ritessere le fila del Partito dopo le traumatiche esperienze di quegli anni e rilanciò, in luogo della solidarietà nazionale, la strategia di “alternativa democratica” che vedesse protagoniste forze laiche e cattoliche[24]. Berlinguer riaffermò il nesso tra democrazia e socialismo e legò, in una prospettiva di trasformazione, il Pci agli altri partiti comunisti europei, soprattutto quello francese e quello spagnolo, in un incontro che fu definito con il nome di “eurocomunismo”, ovvero una “terza via” tra la Socialdemocrazia e il Socialismo reale[25].


[1] Cfr. “Almanacco Pci ‘75” a cura della sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[2] Cfr. Agosti op. cit.
[3] Cfr. Veltroni “La sfida interrotta. Le idee di Enrico Berlinguer”, Baldini&Castaldi.
[4] Cfr. Chiarante “La Democrazia cristiana”, Editori riuniti.
[5] Dati del tesseramento del Pci dal 1969 al 1976:
1969: 1.503.816 iscritti; 1970: 1.507.047 iscritti; 1971: 1.521.642 iscritti; 1972: 1.584.659 iscritti; 1973: 1.623.082 iscritti; 1974: 1.657.825 iscritti; 1975: 1.730.453 iscritti; 1976: 1.814.262 iscritti.
Fonte citata.
[6] Cfr. “Almanacco Pci ‘76” a cura della sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[7] Il Pci, nella sua storia, riuscì solo nel 1976 ad amministrare contemporaneamente 6 regioni.
Nella storia delle Regioni tutte le giunte regionali che videro la presenza del Pci furono:
Emilia Romagna: 1970-76 Fanti (Pci), 1976-78 Cavina (Pci), 1978-87 Turci (Pci), 1987-90 Guerzoni (Pci);
Toscana: 1970-78 Lagorio (Psi), 1978-83 (Leone (Psi), 1983-90 Barolini (Pci);
Umbria: 1970-76 Conti (Pci), 1976-1987 Marri (Pci), 1987-90 Mandarini (Pci);
Piemonte: 1975-80 Viglione (Psi), 1980-83 Enrietti (Psi), 1983-85 Viglione (Psi);
Liguria: 1975-79 Carossino (Pci), 1979-80 Magliotto (Psi);
Lazio: 1976-77 Ferrara (Pci);
Sardegna: 1980-82 Rais (Psi), 1982-89 Melis (Partito Sardo D’Azione);
Valle d’Aosta: 1973-74 Dujany (Democratici Popolari).
Va segnalata inoltre la particolare esperienza che si ebbe in Sicilia tra il 1958 ed il 1960 e che vide alla presidenza l'ex democristiano Silvio Milazzo con un'atipica maggioranza che comprendeva Unione Siciliana Cristiano Sociale (il partito fondato da Milazzo), il Msi, il Psdi, il Pli, il Pri, con l'appoggio del Psi e del Pci.
Il Pci quindi non ha mai amministrato le regioni Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria.
[8] Giunte di sinistra costituite tra il 1975 e il 1976 nelle Province (46 su 92) si formarono a:
Alessandria, Torino, Vercelli, Genova, La Spezia, Savona, Cremona, Mantova, Milano, Pavia, Rovigo, Venezia, Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa, Pistoia, Massa Carrara, Siena, Ancona, Ascoli, Pesaro, Perugia, Terni, Rieti, Pescara, Teramo, Avellino, Napoli, Salerno, Matera, Foggia, Taranto, Cagliari, Nuoro, Sassari, Cosenza.
[9] Giunte di sinistra costituite tra il 1975 e il 1976 nei Comuni capoluogo di Provincia (39 su 95) si formarono a:
Aosta, Alessandria, Asti, Torino, Vercelli, Genova, Imperia, La Spezia, Savona, Cremona, Mantova, Milano, Pavia, Venezia, Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa, Pistoia, Massa Carrara, Siena, Ancona, Pesaro, Perugia, Terni, Roma, Rieti, Napoli , Sassari, Cosenza.
[10] Le sinistre amministrarono dal biennio 1975-76 Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Firenze, Bologna. In pratica tutte le maggiori città eccetto Palermo, Catania e Bari.
[11] Cfr. Cossutta, Stefanini, Zangheri “Decentramento e partecipazione”, Editori Riuniti.
[12] Cfr. Agosti op. cit.
[13] Cfr. Berlinguer “Attualità e futuro”, L’Unità e Veltroni op. cit.
[14] Cfr. Veltroni op. cit.
[15] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 20 giugno 1976:
Pci 34,4% - Dc 38,6% - Psi 9,6%.
Il Pci ottenne 227 seggi alla Camera e 116 al Senato.
[16] Nelle Legislature seguenti, nonostante si fosse concluso l’accordo tra Dc e Pci, l’assegnare la Presidenza della Camera al Pci, che era ritornato ad essere il maggiore partito dell’opposizione, divenne una consuetudine. Il posto di Pietro Ingrao fu preso nelle seguenti Legislature da Nilde Iotti.
[17] Cfr. Gorresio, Pansa, Tornabuoni “Trent’anni dopo. Il regime democristiano nella tempesta ”, Tascabili Bompiani.
[18] Cfr. Rossanda op. cit.
[19] Cfr. Agosti op. cit. e Rossanda op. cit.
[20] Cfr. AA.VV. “Settantasette”, DeriveApprodi.
[21] Cfr. AA.VV. “Settantasette”, DeriveApprodi.
[22] Cfr. Zavoli “C’era una volta la Prima Repubblica”, Mondadori e Zavoli “La notte della Repubblica”, L’Unità.
[23] Cfr. Agosti op. cit.
[24] Cfr. Berlinguer op. cit.
[25] Cfr. Di Napoli “L’Eurocomunismo tra storia e cronistoria”, Edizioni Paoline.

X - Il ritorno all'opposizione

Nelle elezioni anticipate del giugno 1979[1] il Pci perse il 4% dalle precedenti elezioni[2], mentre il peso politico della Dc rimase invariato. Il Psi, che aveva vissuto gli ultimi anni totalmente schiacciato tra la Dc e il Pci, con il cambiamento della leadership interna finita nelle mani di Bettino Craxi e con il mutamento della situazione politica, pur rimanendo stabile da un punto di vista elettorale, cominciò sempre di più a riprendere spazio, puntando ad essere l’ago della bilancia tra i due principali partiti[3].

Il comportamento “corsaro” del Psi si manifestò anche dopo le elezioni regionali dell’8 giugno 1980, quando il Partito di Craxi mise in difficoltà il Pci, sceso in quelle elezioni al 31,5%[4], non riconfermando con esso l’alleanza in tutte le giunte costituite nel biennio 1975-76. La Dc, risalita al 36,8%, pur di riconquistare il maggior numero possibile delle amministrazioni perse negli anni precedenti, in queste era solita offrire la guida al Psi, ovviamente con l’obbligo per il Partito di Craxi di cambiare la maggioranza uscente. Dopo avere a lungo oscillato, governando a livello locale sia con la Dc che con il Pci, il Partito di Craxi formulò stabilmente, a livello nazionale, un’alleanza di governo con la Dc, facendo pesare sempre di più, nelle richieste di posti di potere, il suo ruolo di partito di confine[5]. Anche i piccoli partiti, Pli, Pri e Psdi rientrarono nell’alleanza che fu detta, per il numero dei partiti che la componevano, “pentapartito”. Il pentapartito, a differenza del centro-sinistra, non si poneva l’obbiettivo di assumere un profilo riformatore, ma si caratterizzò semplicemente per la tendenza innata alla conservazione del potere e alla spartizione dello stesso, celando quest’intenzione dietro una parola molto in voga in quel periodo: governabilità[6]. Il Pci si ritrovò di nuovo all’opposizione e soprattutto completamente isolato.

La situazione si complicò ulteriormente con la rottura definitiva del Pci con l’Urss che avvenne all’inizio degli anni ’80[7]. Dopo avere duramente condannato l’invasione dell’Afghanistan, ribadendo la volontà del Partito di non chiedere più l’uscita dalla Nato, fu il colpo di Stato in Polonia a dire la parola fine nel rapporto tra il Pci e quello che poteva, a quel punto, essere considerato ex Stato guida. Enrico Berlinguer, con un’intervista televisiva, dichiarò conclusa la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”[8]. La dichiarazione, che destò grosso clamore, provocò un’importante frattura all’interno del Partito, con l’ala filosovietica, diretta da Armando Cossutta, che insorse e cominciò una battaglia interna che, raccogliendo consensi nella base nostalgica, continuò per motivazioni diverse, fino alla fine del Pci[9].

Berlinguer, per uscire dall’isolamento in cui era caduto il Pci, provò a recuperare in Italia quel ruolo di protagonista dell’opposizione sociale che si era ovviamente un po’ appannato negli anni della solidarietà nazionale. Il Partito provò a ricostruire delle alleanze nella base del Paese, cercando convergenze con le nuove forze sociali che chiedevano il rinnovamento della società italiana e riprendendo i rapporti con quello che era il tradizionale riferimento sociale del Pci: la classe operaia. In quest’ottica vanno lette le battaglie contro l’installazione degli Euromissili, per la pace e, soprattutto, nella vertenza degli operai della Fiat del 1980. Il Pci in quella lotta arrivò addirittura a scavalcare il ruolo della Cgil e la sconfitta finale e quella riportata anni dopo nel referendum, che era stato fortemente voluto da Berlinguer, per difendere la “scala mobile” cancellata da Craxi, segnarono in maniera indelebile il Partito.

Il Pci si cominciò ad accorgersi che la società stava mutando e che il Partito, così com’era, cominciava ad essere uno strumento inadatto per fronteggiare e governare il cambiamento. Gli iscritti cominciarono a calare[10] con la stessa costanza con la quale erano aumentati fino al 1976 e nel Partito qualcuno cominciò ad immaginare che si fosse imboccata la via del declino. Tra questi non c’era senz’altro Enrico Berlinguer che continuò con immutata passione politica a procedere verso il tentativo di rinnovamento del Partito e della politica italiana[11]. Nel XVI Congresso del Pci del marzo del 1983 Enrico Berlinguer, oltre a fare il punto sui rapporti con l’Urss e a riproporre l’alternativa democratica, pose al centro del suo intervento quella che era la sua maggiore convinzione, la “questione morale”, ritenendola di vitale importanza per il risanamento dello Stato.

Alle elezioni del 1983[12] chi pagò il prezzo più salato della crisi della politica di quegli anni fu la Dc, che perse, nonostante un tentativo di rinnovamento tentato negli ultimi mesi dal nuovo segretario Ciriaco De Mita, il 5,4% rispetto al 1979. Nella precedente Legislatura la Dc aveva anche ceduto la guida del governo, che per la prima volta era andata ad un laico, il repubblicano Giovanni Spadolini. La linea aggressiva del Psi, invece, pagò, ed il Partito di Craxi salì dell’ 1,6% rispetto al 1979 e pretese, per il suo leader, la Presidenza del Consiglio. Il Pci, grazie soprattutto al carisma di Berlinguer, riuscì a reggere perdendo solo lo 0,5% dei voti rispetto al 1979.

L’anno delle elezioni europee, il 1984, era stato per il Pci un anno di intense lotte. Queste riguardarono sia la difesa della “scala mobile”, nella quale il Pci si trovò solo insieme alla Cgil, sia quelle per la pace, nelle quali il Partito riuscì a coinvolgere anche altri settori di società che tradizionalmente non erano vicini alle posizioni del Pci[13]. Il Pci che si avvicinava alle elezioni europee era quindi un partito che stava provando a superare le sue difficoltà, ma l’11 giugno del 1984, dopo un’agonia durata tre giorni, morì Enrico Berlinguer. Il leader sardo aveva accusato un malore durante un comizio a Padova durante la campagna elettorale[14]. Ai funerali di Enrico Berlinguer fu ripetuta la straordinaria partecipazione di popolo che si era avuta trenta anni prima ai funerali di Togliatti e deve essere ricordata la commossa presenza dell’allora Presidente della Repubblica, l’ex partigiano socialista Sandro Pertini, che considerava il defunto leader alla stregua di un figlio[15]. Le elezioni europee[16], sulla scia dell’ondata di commozione nazionale, regalarono un riconoscimento postumo alla coerenza di Enrico Berlinguer. Il suo nome fu scritto ugualmente sulla scheda elettorale da oltre 600.000 elettori e il Pci, in quella unica occasione nella sua storia, conseguì in Italia la maggioranza relativa.


[1] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 3 giugno 1979:
Pci 30,4% - Dc 38,3% - Psi 9,8%.
Il Pci ottenne 201 seggi alla Camera e 109 al Senato.
[2] Il calo fu confermato anche nelle prime elezioni per il Parlamento Europeo che si tennero il 10 giugno 1979. Il Pci conseguì in quella tornata elettorale il 29,7% dei voti contro il 36,4% della Dc.
Il Pci ottenne 24 seggi al Parlamento europeo.
[3] Cfr. Colarizi op. cit.
[4] A questo risultato va però aggiunto l’1,2% del Pdup, confluito pochi mesi dopo nel Pci.
[5] Cfr. Colarizi op. cit.
[6] Cfr. Agosti op. cit.
[7] Cfr. Pansa “Ottobre addio – Viaggio tra i comunisti italiani”, Mondadori.
[8] Cfr. Veltroni op. cit.
[9] Cfr Cossutta “Una storia comunista”, Rizzoli.
[10] Dati del tesseramento del Pci dal 1977 al 1990:
1977: 1.814.154 iscritti; 1978: 1.790.450 iscritti; ; 1979: 1.761.297 iscritti; 1980: 1.751.323 iscritti; 1981: 1.714.052 iscritti; 1982: 1.673.751 iscritti; 1983: 1.635.264 iscritti; 1984: 1.619.940 iscritti; 1985: 1.595.281 iscritti; 1986: 1.551.576 iscritti; 1987: 1.508.140 iscritti; 1988: 1.462.281 iscritti; 1989: 1.421.230 iscritti; 1990 1.264.790 iscritti.
Fonte citata.
[11] Cfr. Berlinguer op. cit.
[12] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 26 giugno 1983:
Pci 29,9% - Dc 32,9% - Psi 11,4%.
Il Pci ottenne 198 seggi alla Camera e 107 al Senato.
[13] Cfr. Colarizi op. cit.
[14] Cfr. Veltroni op. cit.
[15] Cfr. Veltroni op. cit.
[16] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni Europee del 17 giugno 1984:
Pci 33,3% - Dc 33,0%.
Il Pci ottenne 27 seggi al Parlamento europeo.