Con l’avanzata delle forze conservatrici, il Pci aveva l’impellente necessità di uscire da una situazione di immobilismo e la prima risposta fu data durante il XIII Congresso del Partito, del marzo del 1972, dal neo segretario generale Enrico Berlinguer che, nella sua relazione introduttiva, propose un “governo di svolta democratica” che vedesse la collaborazione delle tre principali correnti popolari: comunista, socialista e cattolica[1]. In quel contesto l’unità delle sinistre era una “condizione necessaria, ma non sufficiente”.
Una nuova svolta avvenne nel 1973 all’indomani del colpo di Stato in Cile di Pinochet ai danni del Governo di sinistra di Allende. Berlinguer, temendo che anche n Italia ci potessero essere pericoli per la democrazia, rilanciò, con un intervento su Rinascita, la linea di un “compromesso storico”, alleanza in difesa delle Istituzioni democratiche dei tre partiti popolari[2]. Berlinguer vedeva la Democrazia Cristiana non come un partito monolitico e conservatore, ma come una forza in costante evoluzione, al cui interno erano presenti, oltre alle forze reazionarie, importanti elementi popolari che potevano, e dovevano, essere convinti a collaborare con il Pci. Negli anni successivi il leader del Pci continuò a portare avanti questa linea politica ampliandola ed arrivando a proporre un’alleanza con la Dc non più soltanto difensiva, ma anche di programma e che si ponesse ambiziosi ed avanzati obiettivi, al punto di ipotizzare una maggioranza di governo, che saldando il solidarismo cattolico con le lotte dei comunisti, potesse puntare al superamento del sistema con l’inserimento graduale di elementi di socialismo[3].
I primi frutti della stagione del “sessantotto” si videro nel 1974 con il referendum per l’abrogazione della Legge sul divorzio, approvata nel 1970. Il segretario democristiano Fanfani schiacciò il proprio partito su posizioni oltranziste e volle a tutti i costi un referendum che il Pci, pronto anche a concessioni, avrebbe voluto evitare[4]. Ma quando il referendum fu ufficialmente indetto il Pci ruppe gli indugi e si schierò, con tutta la sua forza organizzativa per il “No” e i risultati furono sorprendenti. Il “No” stravinse raggiungendo il 60% dei voti dimostrando quanto effettivamente la società italiana fosse cambiata negli anni successivi al 1968. Le tante persone, anche non iscritte ai partiti, che si mobilitarono per il “No” al referendum dimostrarono inoltre una voglia di partecipazione che non poteva essere sottovalutata. Il Pci stesso in questi anni aumentò costantemente i propri iscritti[5], ridiventando, nel 1976, il primo partito per numero di iscrizioni, dopo 13 anni in cui il primato era stato della Dc.
Il fatto che il Paese si fosse spostato “a sinistra” emerse in maniera chiara ed inequivocabile alle elezioni amministrative del 1975. Prima di quelle elezioni il Pci amministrava solo le tre regioni rosse e pochissime altre province e comuni capoluogo al di fuori dell’Emilia, della Toscana e dell’Umbria[6]. Dopo il big bang del 15 giugno 1975, il Pci, con il Psi e in qualche caso anche con il Psdi e Pri, si trovò in maggioranza in sei regioni, aggiungendo ai governi nelle tre solite regioni rosse il Piemonte, la Liguria e il Lazio[7], nella metà delle province[8], nel 40% dei comuni capoluogo[9], in un terzo di tutti i comuni italiani e in quasi tutte le maggiori città[10]. In percentuale il Pci superò per la prima volta il 30 per cento raggiungendo il 33,4% contro il 35,2% della Dc e per le elezioni successive si faceva realistica l’ipotesi del sorpasso.
Gli organismi dirigenti del Partito, eletti nel marzo del 1975 nel XIV Congresso, “si svuotarono” e moltissimi quadri andarono a ricoprire incarichi istituzionali nelle amministrazioni locali[11]. Il Partito in tutta Italia si dovette confrontare a questo punto con i problemi di governo e di attuazione dei programmi, in regioni, province e città nelle quali, non essendo mai state amministrate dalle sinistre, erano presenti delle aspettative di cambiamento, sia nei cittadini che negli iscritti o militanti, che si erano accresciute nei tanti anni di opposizione del Pci[12]. Nel Congresso, Berlinguer, oltre ad abbandonare l’idea dell’uscita dalla Nato dell’Italia, aveva rilanciato la strategia del “compromesso storico”[13] e ne aveva allargato gli orizzonti da prospettiva per un nuovo a governo a trasformazione democratica della società. In quell’assise Berlinguer, considerato il malcostume che dilagava all’interno dei partiti, pose con forza anche la cosiddetta “questione morale” che si basava sul recupero di “senso dello Stato” da parte dei partiti e degli attori della politica[14].
Alle elezioni politiche del 20 giugno 1976[15] si arrivò con la consapevolezza che il primato democristiano era per la prima volta in discussione e si riaffacciò nell’elettorato moderato la “paura del sorpasso comunista” che ottenne il risultato di far confluire sulle liste Dc tutti i consensi moderati e di svuotare le liste minori a cominciare dal Pli, che in quella competizione elettorale scese sotto al 2%. La Dc mantenne la maggioranza relativa, mentre il Pci, pur raggiungendo il suo massimo storico con il 34,4%, non riuscì a mettere in pericolo la supremazia democristiana. Ma la polarizzazione dell’elettorato sui due maggiori partiti, che insieme raggiungevano quasi i tre quarti dei voti, rendeva necessaria una collaborazione al governo tra Dc e Pci. Un primo atto ufficiale dell’avvicinamento tra la Dc ed il Pci avvenne con l’elezione di Ingrao a Presidente della Camera[16].
Pur con le diffidenze degli Usa, la Dc ed il Pci, con l’instancabile lavoro dei loro leader Aldo Moro, che pur non essendo il segretario della Dc nei fatti ne condizionava profondamente la linea[17], ed Enrico Berlinguer trovarono un accordo per la formazione di un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti che vedeva l’astensione del Pci. Il risultato conseguito, che pure non accontentava in pieno il Pci[18], fece si che il Partito di Berlinguer, rompendo la pregiudiziale anticomunista, rientrasse nell’area di governo dopo un’attesa durata quasi trenta anni.
Ovviamente il Pci sperava che quello fosse solo il primo passo per un’assunzione di responsabilità più ampia, ma dall’altra parte dava frutti ben maggiori la strategia della Dc, che aveva lo scopo di logorare il Partito comunista, di frenare sull’entrata vera e propria del Pci al governo. Il Pci, pur ottenendo qualche piccolo risultato dal Governo nonostante l’aggravarsi della situazione economica causata dall’inflazione, si trovò nella scomoda situazione di avere responsabilità senza avere potere effettivo, mentre si facevano sempre più forti le pressioni della base[19].
I veri problemi, infatti, il Pci li ebbe alla sua sinistra dove la frattura con l’area extraparlamentare, che era stata latente fino a quel momento, era divenuta molto più profonda. Il movimento popolare del 1977, egemonizzato dall’area della “Autonomia Operaia”[20], assunse toni molto radicali di critica nei confronti della linea politica del Pci, che dal suo canto, sempre di più, sembrava accettare quella politica “dei due tempi”, che subordinava le riforme al risanamento, e che era stata contestata ai socialisti all’epoca del centrosinistra. La protesta fu contrassegnata anche da gesti clamorosi, come la cacciata di Lama, segretario generale della Cgil, dall’Università di Roma nel febbraio del 1977[21], e soprattutto da una violenza diffusa caratterizzata da importanti scontri che vedevano contrapporsi manifestanti e Forze dell’ordine.
La nascita e la successiva crescita dei gruppi terroristici “rossi” complicarono ulteriormente la situazione del Pci, che si vide stretto tra le difficoltà di spingere nei confronti della Dc per ottenere risposte “più avanzate” dal Governo e la necessità di dovere assumere un ruolo di responsabilità che isolasse i terroristi. Quando il Pci riuscì ad ottenere dalla Dc qualcosa di più concreto, ovvero l’accordo che avrebbe riconosciuto l’entrata del Partito nella maggioranza di governo, il più importante gruppo terroristico, le Brigate Rosse, misero a segno il più grave attentato terroristico della storia dell’Italia repubblicana: il rapimento di Aldo Moro[22].
Il 16 marzo del 1978 si discuteva in Parlamento la fiducia al nuovo Governo Andreotti, definito di “solidarietà nazionale”, che sanciva il nuovo accordo tra Dc e Pci. Le BR rapirono, con una sanguinosa strage, il leader democristiano, massimo fautore del nuovo accordo politico, e, al termine di lunghe trattative che divisero l’Italia e i partiti politici, lo uccisero. Il Pci si trovò ad essere costretto a mantenere la fiducia ad un governo che non manteneva nessuna delle promesse di cambiamento e che al quale, in una qualsiasi altra situazione, si sarebbe sicuramente opposto.
Il Pci riuscì a disimpegnarsi dal governo solo nel gennaio del 1979 e pagò a caro prezzo il ritardo, sicuramente non voluto, con il quale maturò questa posizione[23]. Il XV Congresso del Pci dell’aprile 1979 provò a ritessere le fila del Partito dopo le traumatiche esperienze di quegli anni e rilanciò, in luogo della solidarietà nazionale, la strategia di “alternativa democratica” che vedesse protagoniste forze laiche e cattoliche[24]. Berlinguer riaffermò il nesso tra democrazia e socialismo e legò, in una prospettiva di trasformazione, il Pci agli altri partiti comunisti europei, soprattutto quello francese e quello spagnolo, in un incontro che fu definito con il nome di “eurocomunismo”, ovvero una “terza via” tra la Socialdemocrazia e il Socialismo reale[25].
[1] Cfr. “Almanacco Pci ‘75” a cura della sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[2] Cfr. Agosti op. cit.
[3] Cfr. Veltroni “La sfida interrotta. Le idee di Enrico Berlinguer”, Baldini&Castaldi.
[4] Cfr. Chiarante “La Democrazia cristiana”, Editori riuniti.
[5] Dati del tesseramento del Pci dal 1969 al 1976:
1969: 1.503.816 iscritti; 1970: 1.507.047 iscritti; 1971: 1.521.642 iscritti; 1972: 1.584.659 iscritti; 1973: 1.623.082 iscritti; 1974: 1.657.825 iscritti; 1975: 1.730.453 iscritti; 1976: 1.814.262 iscritti.
Fonte citata.
[6] Cfr. “Almanacco Pci ‘76” a cura della sezione centrale stampa e propaganda Pci.
[7] Il Pci, nella sua storia, riuscì solo nel 1976 ad amministrare contemporaneamente 6 regioni.
Nella storia delle Regioni tutte le giunte regionali che videro la presenza del Pci furono:
Emilia Romagna: 1970-76 Fanti (Pci), 1976-78 Cavina (Pci), 1978-87 Turci (Pci), 1987-90 Guerzoni (Pci);
Toscana: 1970-78 Lagorio (Psi), 1978-83 (Leone (Psi), 1983-90 Barolini (Pci);
Umbria: 1970-76 Conti (Pci), 1976-1987 Marri (Pci), 1987-90 Mandarini (Pci);
Piemonte: 1975-80 Viglione (Psi), 1980-83 Enrietti (Psi), 1983-85 Viglione (Psi);
Liguria: 1975-79 Carossino (Pci), 1979-80 Magliotto (Psi);
Lazio: 1976-77 Ferrara (Pci);
Sardegna: 1980-82 Rais (Psi), 1982-89 Melis (Partito Sardo D’Azione);
Valle d’Aosta: 1973-74 Dujany (Democratici Popolari).
Va segnalata inoltre la particolare esperienza che si ebbe in Sicilia tra il 1958 ed il 1960 e che vide alla presidenza l'ex democristiano Silvio Milazzo con un'atipica maggioranza che comprendeva Unione Siciliana Cristiano Sociale (il partito fondato da Milazzo), il Msi, il Psdi, il Pli, il Pri, con l'appoggio del Psi e del Pci.
Il Pci quindi non ha mai amministrato le regioni Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Marche, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria.
[8] Giunte di sinistra costituite tra il 1975 e il 1976 nelle Province (46 su 92) si formarono a:
Alessandria, Torino, Vercelli, Genova, La Spezia, Savona, Cremona, Mantova, Milano, Pavia, Rovigo, Venezia, Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa, Pistoia, Massa Carrara, Siena, Ancona, Ascoli, Pesaro, Perugia, Terni, Rieti, Pescara, Teramo, Avellino, Napoli, Salerno, Matera, Foggia, Taranto, Cagliari, Nuoro, Sassari, Cosenza.
[9] Giunte di sinistra costituite tra il 1975 e il 1976 nei Comuni capoluogo di Provincia (39 su 95) si formarono a:
Aosta, Alessandria, Asti, Torino, Vercelli, Genova, Imperia, La Spezia, Savona, Cremona, Mantova, Milano, Pavia, Venezia, Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Pisa, Pistoia, Massa Carrara, Siena, Ancona, Pesaro, Perugia, Terni, Roma, Rieti, Napoli , Sassari, Cosenza.
[10] Le sinistre amministrarono dal biennio 1975-76 Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Firenze, Bologna. In pratica tutte le maggiori città eccetto Palermo, Catania e Bari.
[11] Cfr. Cossutta, Stefanini, Zangheri “Decentramento e partecipazione”, Editori Riuniti.
[12] Cfr. Agosti op. cit.
[13] Cfr. Berlinguer “Attualità e futuro”, L’Unità e Veltroni op. cit.
[14] Cfr. Veltroni op. cit.
[15] Risultati dei maggiori partiti alle elezioni per la Camera dei Deputati del 20 giugno 1976:
Pci 34,4% - Dc 38,6% - Psi 9,6%.
Il Pci ottenne 227 seggi alla Camera e 116 al Senato.
[16] Nelle Legislature seguenti, nonostante si fosse concluso l’accordo tra Dc e Pci, l’assegnare la Presidenza della Camera al Pci, che era ritornato ad essere il maggiore partito dell’opposizione, divenne una consuetudine. Il posto di Pietro Ingrao fu preso nelle seguenti Legislature da Nilde Iotti.
[17] Cfr. Gorresio, Pansa, Tornabuoni “Trent’anni dopo. Il regime democristiano nella tempesta ”, Tascabili Bompiani.
[18] Cfr. Rossanda op. cit.
[19] Cfr. Agosti op. cit. e Rossanda op. cit.
[20] Cfr. AA.VV. “Settantasette”, DeriveApprodi.
[21] Cfr. AA.VV. “Settantasette”, DeriveApprodi.
[22] Cfr. Zavoli “C’era una volta la Prima Repubblica”, Mondadori e Zavoli “La notte della Repubblica”, L’Unità.
[23] Cfr. Agosti op. cit.
[24] Cfr. Berlinguer op. cit.
[25] Cfr. Di Napoli “L’Eurocomunismo tra storia e cronistoria”, Edizioni Paoline.